Wael Zuaiter e la Nona Sinfonia di Beethoven
Wael Zuaiter era un intellettuale palestinese esule a Roma e rappresentante di al-Fatah negli anni '70. A quanto mi risulta il suo personaggio è anche citato in Munich di Spielberg in quanto ucciso dal Mossad, pare per ordine diretto di Golda Meir, in rappresaglia per la strage degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco '72; non ho (ancora) visto il film e quindi non posso confermare.
L'interessante libro dedicato alla sua figura, Per un palestinese. Dediche a più voci a Wael Zuaiter (Prospettiva Edizioni, Roma, 2002... ma uscì la prima volta nel '77), contiene scritti di molti suoi illustri conoscenti: Arafat, Rafael Alberti, Jean Genet, Moravia, Elio Petri, Giorgio La Pira e altri ancora. Mi è particolarmente piaciuto il ricordo di Bruno Cagli, musicologo e storico della musica, che rievoca uno scambio di opinioni tra lui e Zuaiter a proposito del messaggio musicale di pace troppo spesso eluso dai pur entusiasti melomani. Zuaiter era anche appassionato di musica, prima in ambito tradizionale arabo, successivamente con l'approfondimento delle sue conoscenze in fatto di musica occidentale. Ne trascrivo qualche spezzone qui di seguito (tutto sarebbe molto lungo da trascrivere); ci sono delle considerazioni interessanti e, per quanto mi riguarda, condivisibili.
La Nona Sinfonia: utilizzazione e destino
(di Bruno Cagli)
Durante la Guerra dei Sei giorni Wael Zuaiter un giorno mi disse: «questa società che è stata in grado di dare al mondo la Nona Sinfonia di Beethoven non è in grado di impedire tutto questo?».
Era una domanda? O piuttosto una constatazione? O l'una e l'altra cosa insieme? Mi ricordo perfettamente la sua riflessione, tanto più amara in quanto espressa da una persona che, provenendo da un'altra cultura, aveva compiuto senza sforzo apparente una pressoché totale assimilazione del gusto estetico occidentale, come potremo forse definirlo. Intendo dire che Wael Zuiter era perfettamente in grado non soltanto di parlare le più importanti lingue europee, ma anche di discutere di qualunque argomento, di musica, letteratura e arte al pari di qualsivoglia europeo profondamente «acculturato». Difficilmente, dato il suo carattere, del tutto alieno da quegli esibizionismi che affliggono tanti intellettuali, faceva sfoggio della sua cultura, e poteva capitare, anche a chi come me lo conosceva da anni, di non sapere per esempio che era in grado di leggere una partitura d'orchestra.
Di questo mi avvidi soltanto qualche tempo dopo. Erano anni in cui attraversavo una fase di entusiasmi mahleriani e mi capitò un giorno di acquistare la partitura dell'Ottava. Zuaiter me la chiese in prestito e, in cambio, mi prestò un disco della Nona di Mahler in una particolare edizione che comprende anche la registrazione di un breve discorso di Bruno Walter, che ne è il direttore, e di parte delle prove. Come succede spesso con i prestiti, passarono parecchi mesi senza che nessuno dei due pensasse alle restituzioni. Fu così che, dopo il suo assassinio, la partitura dell'Ottava Sinfonia fu trovata dalla polizia nella sua casa e sequestrata come «reperto sospetto». Sospetto certo perché incomprensibile ai nostri zelanti poliziotti. Immagino che tale reperto sia stato analizzato, forse schedato (e sarebbe ben curioso sapere come), infine messo da parte come del tutto irrilevante e riconsegnato a me. [...]
Non so se quell'«allegro impetuoso» e quel «poco adagio» abbiano anch'essi dato da pensare a qualche zelante funzionario di questa bella società che ha riversato sul mondo diverse None Sinfonie e altrettante e più ancora Ottave e Settime. È certo che la partitura dell'Ottava risultava in prima linea tra il materiale interessante trovato dalla polizia nei giorni in cui si mirava ad accreditare la tesi dell'uccisione da parte degli stessi arabi. [...]
Quando Wael, che viveva, se così posso dire, «di cultura» e viveva tra persone che «praticano la cultura» continuamente, diceva che la Nona Sinfonia non era bastata a impedire una guerra, commentava senza saperlo i due episodi successivi. Da un lato constatiamo l'incapacità del mondo culturale di realizzare qualcosa di pratico, dall'altro tuttavia rileviamo il sospetto che circonda una cultura che rimane estranea all'esercizio del potere. [...] Dunque Wael, prima di essere ucciso, aveva in qualche modo messo in discussione il ruolo che la nostra società ha assegnato agli artisti, agli intellettuali e alla cultura in genere. E che ha aspetti tali che, mettendosi nelle vesti di una persona proveniente da un'altra civiltà e da una società diversa, non possono non sembrare del tutto eccezionali. Infatti, confrontando il culto che si ha da noi dell'arte e dell'artista, si potrà agevolmente vedere che esso non trova riscontro altrove. In certo senso nemmeno nell'antichità il nome degli artisti è stato oggetto di venerazione come da noi. [...]
«Quando si cesserà di bruciare incensi all'opera d'arte?» si chiedeva Hegel. Certo si bruciano ancora. Ma la domanda di Wael è anch'essa fin troppo scottante: la venerazione che circonda il nome di Beethoven, il fatto che siano stati scritti centinaia di volumi per illustrare il suo messaggio di fratellanza, il fatto che ogni sera, in varie sale da concerto, davanti a centinaia di apparecchi radio e di riproduzione, siedano milioni di persone culturalmente «avvertite» per bearsi dell'ascolto delle opere di Beethoven e di tanti altri musicisti, non può non farci pensare con sgomento che quella stessa società ha prodotto guerre a ripetizione, ha allestito campi di concentramento, ha perpetuato una politica di oppressione, ha coltivato, insieme con i concetti umanitari, miti razzisti, colonialisti, nazionalisti e si è ispirata a essi piuttosto che ai messaggi dei suoi artisti per compiere innumerevoli nefandezze, quando addirittura non ha asservito l'arte e gli artisti stessi a quei miti, piegandoli al compito di diffondere idee di segno opposto a quello della fratellanza e ottenendo, a quanto pare, quel seguito che è invece mancato all'appello contenuto nella Nona Sinfonia di Beethoven.
Cosa è dunque avvenuto in questa società che intitola le proprie strade agli artisti, che li onora con monumenti, con edizioni critiche, con convegni e saggi e che assegna loro connotati divini circondandoli con provvide - ai propri fini - nuvole d'incenso? Apparentemente questo culto sembra del tutto innocuo e privo di macchia. Quanti ascoltano la Nona siedono compunti nelle sale da concerto e si lasciano andare alla beatitudine dell'ascolto. Tuttavia, in questo stesso mondo, una partitura che per qualche caso fortuito esce dallo scaffale e invece di posarsi sulle ginocchia di un ascoltatore o sul leggio di un esecutore finisce sul tavolo di un commissariato riceve un trattamento diverso, ispirato a quanto pare al terrore. Quel terrore della cultura che, ben evidente nelle dittature, è pur sempre retaggio di quegli strumenti dell'oppressione o della repressione civile che dovrebbero vigilare sulla conservazione dei modelli della società e salvaguardare lo Stato e le sue strutture. Ovviamente il sospetto che circonda un libro stampato con caratteri diversi da quelli delle circolari ministeriali non è che la manifestazione elementare di quel sospetto che circonda chi in definitiva fa l'artista in modo da cercar di diffondere un messaggio che induca all'azione invece che alla contemplazione. Al di fuori dell'altare, l'opera d'arte e l'artista non possono stare se non nel cestino della spazzatura o in carcere. Se non si accetta la venerazione, bisogna affrontare il ludibrio e la condanna. Che l'opera d'arte possa compiere qualcosa di diverso dall'intrattenere e possa agire in modo da trasformare la società sappiamo bene che non è accettato. Già nella sua Repubblica Platone aveva fissato i compiti e il posto che dovevano occupare gli artisti, ma aveva anche accuratamente distinto l'arte ammessa e quella non ammessa. La civiltà che ha fatto proprio l'idealismo platonico non ha cessato di scegliere e fissare rigidi confini, anche se non proprio nel senso platonico. Il concetto che sia ammessa un'arte per lo Stato va di pari passo con il rifiuto e la condanna dell'arte contro lo Stato e lo Stato sarà poi il concetto di nazione, di supremazia religiosa e civile, sarà il concetto di espansione e di conquista e sarà anche il mito dell'efficienza pratica contro l'inefficienza contemplativa (un mito che agì così pericolosamente nella pubblica opinione occidentale all'epoca della Guerra dei Sei giorni).
Dell'arte questa società si serve al suo interno per il rito sociale e all'esterno per rafforzare la sua immagine e contornarla di un'aureola di superiorità. Certamente non si esportano solo le armi, le merci, le malattie e le ideologie, ma si esportano anche quei magnifici prodotti che sono i classici e si può avere buon gioco mostrando agli altri, che dell'arte fanno un uso del tutto diverso, che da noi essa ha il compito di esprimere il desiderio di fratellanza e di diffondere il messaggio della pace tra gli uomini. [...]
Nel messaggio contenuto nella Nona di Beethoven sembra implicito il fatto che esso è inviato dall'artista avvertito a un pubblico non avvertito (questo compito gli artisti del romanticismo lo sentirono in modo del tutto particolare). Ma l'ascoltatore non diventa Beethoven non solo perché non è in grado di scrivere una Nona Sinfonia, ma perché la sua accettazione del messaggio non va al di là di un'adesione del tutto sentimentale che non è in grado di cambiare né il suo modo di vivere né la società che lo circonda. Tale verità si può dimostrare paradossalmente con il fatto che la nostra società accetta che un artista sia eccentrico e in qualche modo rivoluzionario. Ma non concepisce che si sia rivoluzionari per aver ascoltato musica o letto libri di poesia.
La musica di Mahler denunciava l'alienazione dell'individuo e sentiva tragicamente questo problema. Per questo è stata ed è tuttora odiata, mentre se ne è finalmente accettato il senso nostalgico di richiamo a una lontana felicità perduta. [...]
In definitiva la nostra società non ha paura della Nona Sinfonia, ma ha ancora paura del messaggio contenuto nella Nona Sinfonia e, nel momento in cui si leva una qualunque persona per la quale questo messaggio, in luogo di essere un ozioso strumento di conversazione, diventa un'esigenza di vita, mette in moto un meccanismo spietato di repressione. Quando Wael mi chiedeva come fosse possibile che il messaggio contenuto nella Nona non agisse per riformare il mondo era diventato egli stesso il portatore vivente di questo messaggio. Ed essere il portatore di questo pericolosissimo principio di libertà e di fratellanza lo ha esposto all'assassinio. Ma la mano che ha armato i sicari era spinta dal terrore, e quando si è mossi dal terrore si rischia di sbagliare i calcoli. In effetti, del tutto inconsapevolmente, ma come conseguenza diretta del meccanismo cieco del potere, ciò che Wael aveva tentato invano di ottenere in vita lo ha ottenuto in morte. Il cambiamento radicale che si è verificato negli intellettuali e nell'opinione pubblica nei confronti dei mandanti di questo assassinio lo testimonia in modo, credo, clamoroso. Per assurdo, dunque, la cultura sembra ancora essere in grado di agire per riformare il mondo. Anche se il prezzo che viene pagato per questa utopia diventa sempre più alto.
L'interessante libro dedicato alla sua figura, Per un palestinese. Dediche a più voci a Wael Zuaiter (Prospettiva Edizioni, Roma, 2002... ma uscì la prima volta nel '77), contiene scritti di molti suoi illustri conoscenti: Arafat, Rafael Alberti, Jean Genet, Moravia, Elio Petri, Giorgio La Pira e altri ancora. Mi è particolarmente piaciuto il ricordo di Bruno Cagli, musicologo e storico della musica, che rievoca uno scambio di opinioni tra lui e Zuaiter a proposito del messaggio musicale di pace troppo spesso eluso dai pur entusiasti melomani. Zuaiter era anche appassionato di musica, prima in ambito tradizionale arabo, successivamente con l'approfondimento delle sue conoscenze in fatto di musica occidentale. Ne trascrivo qualche spezzone qui di seguito (tutto sarebbe molto lungo da trascrivere); ci sono delle considerazioni interessanti e, per quanto mi riguarda, condivisibili.
La Nona Sinfonia: utilizzazione e destino
(di Bruno Cagli)
Durante la Guerra dei Sei giorni Wael Zuaiter un giorno mi disse: «questa società che è stata in grado di dare al mondo la Nona Sinfonia di Beethoven non è in grado di impedire tutto questo?».
Era una domanda? O piuttosto una constatazione? O l'una e l'altra cosa insieme? Mi ricordo perfettamente la sua riflessione, tanto più amara in quanto espressa da una persona che, provenendo da un'altra cultura, aveva compiuto senza sforzo apparente una pressoché totale assimilazione del gusto estetico occidentale, come potremo forse definirlo. Intendo dire che Wael Zuiter era perfettamente in grado non soltanto di parlare le più importanti lingue europee, ma anche di discutere di qualunque argomento, di musica, letteratura e arte al pari di qualsivoglia europeo profondamente «acculturato». Difficilmente, dato il suo carattere, del tutto alieno da quegli esibizionismi che affliggono tanti intellettuali, faceva sfoggio della sua cultura, e poteva capitare, anche a chi come me lo conosceva da anni, di non sapere per esempio che era in grado di leggere una partitura d'orchestra.
Di questo mi avvidi soltanto qualche tempo dopo. Erano anni in cui attraversavo una fase di entusiasmi mahleriani e mi capitò un giorno di acquistare la partitura dell'Ottava. Zuaiter me la chiese in prestito e, in cambio, mi prestò un disco della Nona di Mahler in una particolare edizione che comprende anche la registrazione di un breve discorso di Bruno Walter, che ne è il direttore, e di parte delle prove. Come succede spesso con i prestiti, passarono parecchi mesi senza che nessuno dei due pensasse alle restituzioni. Fu così che, dopo il suo assassinio, la partitura dell'Ottava Sinfonia fu trovata dalla polizia nella sua casa e sequestrata come «reperto sospetto». Sospetto certo perché incomprensibile ai nostri zelanti poliziotti. Immagino che tale reperto sia stato analizzato, forse schedato (e sarebbe ben curioso sapere come), infine messo da parte come del tutto irrilevante e riconsegnato a me. [...]
Non so se quell'«allegro impetuoso» e quel «poco adagio» abbiano anch'essi dato da pensare a qualche zelante funzionario di questa bella società che ha riversato sul mondo diverse None Sinfonie e altrettante e più ancora Ottave e Settime. È certo che la partitura dell'Ottava risultava in prima linea tra il materiale interessante trovato dalla polizia nei giorni in cui si mirava ad accreditare la tesi dell'uccisione da parte degli stessi arabi. [...]
Quando Wael, che viveva, se così posso dire, «di cultura» e viveva tra persone che «praticano la cultura» continuamente, diceva che la Nona Sinfonia non era bastata a impedire una guerra, commentava senza saperlo i due episodi successivi. Da un lato constatiamo l'incapacità del mondo culturale di realizzare qualcosa di pratico, dall'altro tuttavia rileviamo il sospetto che circonda una cultura che rimane estranea all'esercizio del potere. [...] Dunque Wael, prima di essere ucciso, aveva in qualche modo messo in discussione il ruolo che la nostra società ha assegnato agli artisti, agli intellettuali e alla cultura in genere. E che ha aspetti tali che, mettendosi nelle vesti di una persona proveniente da un'altra civiltà e da una società diversa, non possono non sembrare del tutto eccezionali. Infatti, confrontando il culto che si ha da noi dell'arte e dell'artista, si potrà agevolmente vedere che esso non trova riscontro altrove. In certo senso nemmeno nell'antichità il nome degli artisti è stato oggetto di venerazione come da noi. [...]
«Quando si cesserà di bruciare incensi all'opera d'arte?» si chiedeva Hegel. Certo si bruciano ancora. Ma la domanda di Wael è anch'essa fin troppo scottante: la venerazione che circonda il nome di Beethoven, il fatto che siano stati scritti centinaia di volumi per illustrare il suo messaggio di fratellanza, il fatto che ogni sera, in varie sale da concerto, davanti a centinaia di apparecchi radio e di riproduzione, siedano milioni di persone culturalmente «avvertite» per bearsi dell'ascolto delle opere di Beethoven e di tanti altri musicisti, non può non farci pensare con sgomento che quella stessa società ha prodotto guerre a ripetizione, ha allestito campi di concentramento, ha perpetuato una politica di oppressione, ha coltivato, insieme con i concetti umanitari, miti razzisti, colonialisti, nazionalisti e si è ispirata a essi piuttosto che ai messaggi dei suoi artisti per compiere innumerevoli nefandezze, quando addirittura non ha asservito l'arte e gli artisti stessi a quei miti, piegandoli al compito di diffondere idee di segno opposto a quello della fratellanza e ottenendo, a quanto pare, quel seguito che è invece mancato all'appello contenuto nella Nona Sinfonia di Beethoven.
Cosa è dunque avvenuto in questa società che intitola le proprie strade agli artisti, che li onora con monumenti, con edizioni critiche, con convegni e saggi e che assegna loro connotati divini circondandoli con provvide - ai propri fini - nuvole d'incenso? Apparentemente questo culto sembra del tutto innocuo e privo di macchia. Quanti ascoltano la Nona siedono compunti nelle sale da concerto e si lasciano andare alla beatitudine dell'ascolto. Tuttavia, in questo stesso mondo, una partitura che per qualche caso fortuito esce dallo scaffale e invece di posarsi sulle ginocchia di un ascoltatore o sul leggio di un esecutore finisce sul tavolo di un commissariato riceve un trattamento diverso, ispirato a quanto pare al terrore. Quel terrore della cultura che, ben evidente nelle dittature, è pur sempre retaggio di quegli strumenti dell'oppressione o della repressione civile che dovrebbero vigilare sulla conservazione dei modelli della società e salvaguardare lo Stato e le sue strutture. Ovviamente il sospetto che circonda un libro stampato con caratteri diversi da quelli delle circolari ministeriali non è che la manifestazione elementare di quel sospetto che circonda chi in definitiva fa l'artista in modo da cercar di diffondere un messaggio che induca all'azione invece che alla contemplazione. Al di fuori dell'altare, l'opera d'arte e l'artista non possono stare se non nel cestino della spazzatura o in carcere. Se non si accetta la venerazione, bisogna affrontare il ludibrio e la condanna. Che l'opera d'arte possa compiere qualcosa di diverso dall'intrattenere e possa agire in modo da trasformare la società sappiamo bene che non è accettato. Già nella sua Repubblica Platone aveva fissato i compiti e il posto che dovevano occupare gli artisti, ma aveva anche accuratamente distinto l'arte ammessa e quella non ammessa. La civiltà che ha fatto proprio l'idealismo platonico non ha cessato di scegliere e fissare rigidi confini, anche se non proprio nel senso platonico. Il concetto che sia ammessa un'arte per lo Stato va di pari passo con il rifiuto e la condanna dell'arte contro lo Stato e lo Stato sarà poi il concetto di nazione, di supremazia religiosa e civile, sarà il concetto di espansione e di conquista e sarà anche il mito dell'efficienza pratica contro l'inefficienza contemplativa (un mito che agì così pericolosamente nella pubblica opinione occidentale all'epoca della Guerra dei Sei giorni).
Dell'arte questa società si serve al suo interno per il rito sociale e all'esterno per rafforzare la sua immagine e contornarla di un'aureola di superiorità. Certamente non si esportano solo le armi, le merci, le malattie e le ideologie, ma si esportano anche quei magnifici prodotti che sono i classici e si può avere buon gioco mostrando agli altri, che dell'arte fanno un uso del tutto diverso, che da noi essa ha il compito di esprimere il desiderio di fratellanza e di diffondere il messaggio della pace tra gli uomini. [...]
Nel messaggio contenuto nella Nona di Beethoven sembra implicito il fatto che esso è inviato dall'artista avvertito a un pubblico non avvertito (questo compito gli artisti del romanticismo lo sentirono in modo del tutto particolare). Ma l'ascoltatore non diventa Beethoven non solo perché non è in grado di scrivere una Nona Sinfonia, ma perché la sua accettazione del messaggio non va al di là di un'adesione del tutto sentimentale che non è in grado di cambiare né il suo modo di vivere né la società che lo circonda. Tale verità si può dimostrare paradossalmente con il fatto che la nostra società accetta che un artista sia eccentrico e in qualche modo rivoluzionario. Ma non concepisce che si sia rivoluzionari per aver ascoltato musica o letto libri di poesia.
La musica di Mahler denunciava l'alienazione dell'individuo e sentiva tragicamente questo problema. Per questo è stata ed è tuttora odiata, mentre se ne è finalmente accettato il senso nostalgico di richiamo a una lontana felicità perduta. [...]
In definitiva la nostra società non ha paura della Nona Sinfonia, ma ha ancora paura del messaggio contenuto nella Nona Sinfonia e, nel momento in cui si leva una qualunque persona per la quale questo messaggio, in luogo di essere un ozioso strumento di conversazione, diventa un'esigenza di vita, mette in moto un meccanismo spietato di repressione. Quando Wael mi chiedeva come fosse possibile che il messaggio contenuto nella Nona non agisse per riformare il mondo era diventato egli stesso il portatore vivente di questo messaggio. Ed essere il portatore di questo pericolosissimo principio di libertà e di fratellanza lo ha esposto all'assassinio. Ma la mano che ha armato i sicari era spinta dal terrore, e quando si è mossi dal terrore si rischia di sbagliare i calcoli. In effetti, del tutto inconsapevolmente, ma come conseguenza diretta del meccanismo cieco del potere, ciò che Wael aveva tentato invano di ottenere in vita lo ha ottenuto in morte. Il cambiamento radicale che si è verificato negli intellettuali e nell'opinione pubblica nei confronti dei mandanti di questo assassinio lo testimonia in modo, credo, clamoroso. Per assurdo, dunque, la cultura sembra ancora essere in grado di agire per riformare il mondo. Anche se il prezzo che viene pagato per questa utopia diventa sempre più alto.
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