Fischio finale per il terzino attaccante
Ebbene sì, la brutta notizia è già nota a tutti: Giacinto Facchetti, storico capitano dell'Inter e della Nazionale, è mancato oggi 4 settembre 2006 all'età di 64 anni.
Che dire... notoriamente, non sono un tifoso di calcio e di nessuna squadra in particolare. Però ci sono proprio rimasto male ad apprendere questa notizia. Non so di preciso come mai, alle volte mi capita. Forse perché alcune persone diventano rappresentative in positivo pur non facendo nulla di particolare per esserlo. A loro basta essere loro stessi, e se questo si concreta nell'essere un calciatore profondamente innovativo, un personaggio carismatico pur non essendo mai sopra le righe, un analista serio e competente del mondo stesso in cui si trova... come dire, hats off e il più sincero compianto al momento del fischio finale.
Come posso affermare questo? Le sue interviste, a quanto apprendo, non sono poi moltissime. Ne ho scovata una su Golem - L'indispensabile. Sagacia e acume riflessivo nel parlare, ormai da dirigente, del tanto discusso "mondo del calcio". Qualcosa che mi ha colpito:
"Sono sempre stato del parere che se uno deve essere anche da esempio agli altri deve comportarsi bene. Sono cresciuto in una epoca in cui sia la famiglia, che gli stessi allenatori - prima all'oratorio, poi al settore giovanile, anche dell'Inter - guardavano molto a questo aspetto. Era importante. Quando andavi all'oratorio e giocavi nella squadra non bastava essere bravo a giocare, dovevi sempre comportarti in un certo modo. E poi con l'abitudine uno si comporta sempre così."
"Io ho sempre giocato per vincere. Credo che anche da ragazzo, quando giocavi per strada, giocavi per vincere. Non ho mai capito come uno possa giocare e non cercare di vincere. Alla fine certo, se non riesci a vincere, va bene, l'importante è sapere che tu hai fatto tutto il possibile. Se però non hai fatto tutto il possibile, ti deve rimanere dentro una amarezza, ti deve rimanere dentro una rabbia, perché se tu potevi vincere e magari non hai dato tutto il possibile, non solo sul campo, ma anche durante tutta la settimana, poi ti viene anche un senso di colpa. Dovrebbe... dovrebbe essere così."
"Io sono contento di aver fatto tutta la mia carriera, tutta la mia vita da calciatore nell'Inter, sono contentissimo, è una grande soddisfazione. Però devo anche dire che non sono mai stato messo alla prova. Se dicessi 'io non l'avrei mai fatto', potrei essere anche un bugiardo. Non essendo stato messo alla prova è troppo facile dire così, per far bella figura."
"Sarebbe bello pensare sempre che il calciatore è preso ad esempio dai giovani, dai ragazzi. Non dobbiamo dimenticare che il comportamento sul campo è visto da milioni di bambini e da ragazzini che ti identificano nel loro modello e sarebbe bello che pensassero a questo, ancora. Anche nel comportamento: io non sopporto quelli che cercano le simulazioni... mi fanno impazzire. Un giocatore deve essere esser leale: fare, sì, di tutto, dare il massimo, per vincere, per mi piacerebbe vedere sempre un comportamento leale da parte del giocatore. Mi piace che entrino duri, grintosi, determinati, però non devono andare al di là di questo. Questo è il calcio che vorrei vedere."
Trovo molto positivo questo messaggio, anche se è difficile che lo star system attuale lo recepisca e lo faccia proprio. Pazienza! Il parere di uno come Facchetti è, ai miei occhi, molto più rilevante.
D'altronde, non è mica detto che il presente sia per forza una degenerazione rispetto al passato; se lo è, semmai questo accade per fatti ben diversi, più comprovati e meno sentimentali rispetto al piagnucoloso e stantìo "quand'ero giovane io...": per esempio con i ben noti fatti giudiziario-calcistici... Ma questa è un'altra storia. Uno sport bello e sincero è SEMPRE possibile, ma anche qui, se non ci si mettono le PERSONE, non se ne fa nulla. Ecco perché la generazione di mio padre (interista) non ricorda solo le squadre o le partite, ma anche le persone: "Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Suarez, Domenghini e Corso". Più Helenio Herrera in panchina.
Un'altra cosa interessante che posso segnalare a proposito del calcio odierno, con particolare riferimento alla trita e ritrita vittoria mondiale, è l'interessante opinione di Curzio Maltese su MicroMega ultimo numero; non ho sottomano l'articolo, eventualmente (a richiesta, for example) ne trascriverò qualche spezzone. Ma anche questa è una faccenda a parte (la scrivo solo perché mi è venuta in mente...).
Come farewell per Facchetti, proprio mentre scrivevo, mi è tornato in mente il bel passo di Baricco in City (cap. 20)... chi ha letto il libro mi ha già capito. Tristissimo e malinconico, si adatta, purtroppo, ottimamente alla circostanza.
Quando arrivò davanti alla stanza n. 8, entrò e tornò a sedersi sulla sedia accanto al leto del prof. Taltomar. La macchina continuava a respirare. Taltomar era nella stessa posizione di prima, la testa leggermente girata sul cuscino, le braccia fuori dalle coperte, le mani contratte. Gould se ne stette per un bel po' a guardare l'immobile film di un vecchio che se ne andava. Poi si sporse verso il letto e disse:
- Quindicesimo del secondo tempo. Zero a zero. L'arbitro fischia e convoca i due capitani. Gli dice che è molto stanco, che non sa cosa gli è successo, ma è così stanco, e vuole tornare a casa. Vorrei tornare a casa, dice. Stringe la mano a tutt'e due, poi si volta e camminando lento attraversa il campo, verso gli spogliatoi. Il pubblico lo guarda in silenzio. I giocatori rimangono immobili. C'è il pallone, fermo in mezzo all'area, ma nessuno lo guarda. L'arbitro si infila il fischietto in tasca, mormora qualcosa che nessuno può sentire e sparisce nel tunnel.
Le mani di Taltomar non si mossero. Le palpebre tremavano appena, la macchina respirava. Gould rimase immobile, ad aspettare. Guardava le labbra di Taltomar. Senza la solita cicca spenta sembravano disabilitate. Dal corridoio si sentiva la donna che piangeva con una voce da bambina. C'era tempo che passava, del tempo, che passava.
Quando si alzò, Gould rimise la sedia al suo posto. Prese il cappotto e lo tenne sul braccio perché faceva un caldo cane. Diede ancora un'occhiata alla macchina che respirava. Poi si fermò ai piedi del letto, solo un attimo.
- Grazie, professore -, disse.
Grazie, pensò.
Poi uscì. Scese i sei piani di scale, attraversò il grande salone di ingresso dove vendevano i giornali e i malati in pigiama telefonavano a casa. La porta per uscire era a vetri e si apriva solo quando ti avvicinavi. Fuori c'era il sole. Poomerang e Diesel lo stavano aspettando appoggiati a un cassonetto della spazzatura. Se ne andarono insieme, risalendo il viale alberato che portava verso il centro. Ballavano tutti e tre il passo sbilenco di Diesel, ma con arte, e un'eleganza da professionisti.
Solo dopo un po', quando erano ormai arrivati all'incrocio con la Settima, Poomerang si passò una mano sul cranio rapato e non-disse:
- I due capitani si consultano, poi le due squadre ricominciano a giocare. E non smettono di farlo fino alla fine dell'eternità.
Che dire... notoriamente, non sono un tifoso di calcio e di nessuna squadra in particolare. Però ci sono proprio rimasto male ad apprendere questa notizia. Non so di preciso come mai, alle volte mi capita. Forse perché alcune persone diventano rappresentative in positivo pur non facendo nulla di particolare per esserlo. A loro basta essere loro stessi, e se questo si concreta nell'essere un calciatore profondamente innovativo, un personaggio carismatico pur non essendo mai sopra le righe, un analista serio e competente del mondo stesso in cui si trova... come dire, hats off e il più sincero compianto al momento del fischio finale.
Come posso affermare questo? Le sue interviste, a quanto apprendo, non sono poi moltissime. Ne ho scovata una su Golem - L'indispensabile. Sagacia e acume riflessivo nel parlare, ormai da dirigente, del tanto discusso "mondo del calcio". Qualcosa che mi ha colpito:
"Sono sempre stato del parere che se uno deve essere anche da esempio agli altri deve comportarsi bene. Sono cresciuto in una epoca in cui sia la famiglia, che gli stessi allenatori - prima all'oratorio, poi al settore giovanile, anche dell'Inter - guardavano molto a questo aspetto. Era importante. Quando andavi all'oratorio e giocavi nella squadra non bastava essere bravo a giocare, dovevi sempre comportarti in un certo modo. E poi con l'abitudine uno si comporta sempre così."
"Io ho sempre giocato per vincere. Credo che anche da ragazzo, quando giocavi per strada, giocavi per vincere. Non ho mai capito come uno possa giocare e non cercare di vincere. Alla fine certo, se non riesci a vincere, va bene, l'importante è sapere che tu hai fatto tutto il possibile. Se però non hai fatto tutto il possibile, ti deve rimanere dentro una amarezza, ti deve rimanere dentro una rabbia, perché se tu potevi vincere e magari non hai dato tutto il possibile, non solo sul campo, ma anche durante tutta la settimana, poi ti viene anche un senso di colpa. Dovrebbe... dovrebbe essere così."
"Io sono contento di aver fatto tutta la mia carriera, tutta la mia vita da calciatore nell'Inter, sono contentissimo, è una grande soddisfazione. Però devo anche dire che non sono mai stato messo alla prova. Se dicessi 'io non l'avrei mai fatto', potrei essere anche un bugiardo. Non essendo stato messo alla prova è troppo facile dire così, per far bella figura."
"Sarebbe bello pensare sempre che il calciatore è preso ad esempio dai giovani, dai ragazzi. Non dobbiamo dimenticare che il comportamento sul campo è visto da milioni di bambini e da ragazzini che ti identificano nel loro modello e sarebbe bello che pensassero a questo, ancora. Anche nel comportamento: io non sopporto quelli che cercano le simulazioni... mi fanno impazzire. Un giocatore deve essere esser leale: fare, sì, di tutto, dare il massimo, per vincere, per mi piacerebbe vedere sempre un comportamento leale da parte del giocatore. Mi piace che entrino duri, grintosi, determinati, però non devono andare al di là di questo. Questo è il calcio che vorrei vedere."
Trovo molto positivo questo messaggio, anche se è difficile che lo star system attuale lo recepisca e lo faccia proprio. Pazienza! Il parere di uno come Facchetti è, ai miei occhi, molto più rilevante.
D'altronde, non è mica detto che il presente sia per forza una degenerazione rispetto al passato; se lo è, semmai questo accade per fatti ben diversi, più comprovati e meno sentimentali rispetto al piagnucoloso e stantìo "quand'ero giovane io...": per esempio con i ben noti fatti giudiziario-calcistici... Ma questa è un'altra storia. Uno sport bello e sincero è SEMPRE possibile, ma anche qui, se non ci si mettono le PERSONE, non se ne fa nulla. Ecco perché la generazione di mio padre (interista) non ricorda solo le squadre o le partite, ma anche le persone: "Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Suarez, Domenghini e Corso". Più Helenio Herrera in panchina.
Un'altra cosa interessante che posso segnalare a proposito del calcio odierno, con particolare riferimento alla trita e ritrita vittoria mondiale, è l'interessante opinione di Curzio Maltese su MicroMega ultimo numero; non ho sottomano l'articolo, eventualmente (a richiesta, for example) ne trascriverò qualche spezzone. Ma anche questa è una faccenda a parte (la scrivo solo perché mi è venuta in mente...).
Come farewell per Facchetti, proprio mentre scrivevo, mi è tornato in mente il bel passo di Baricco in City (cap. 20)... chi ha letto il libro mi ha già capito. Tristissimo e malinconico, si adatta, purtroppo, ottimamente alla circostanza.
Quando arrivò davanti alla stanza n. 8, entrò e tornò a sedersi sulla sedia accanto al leto del prof. Taltomar. La macchina continuava a respirare. Taltomar era nella stessa posizione di prima, la testa leggermente girata sul cuscino, le braccia fuori dalle coperte, le mani contratte. Gould se ne stette per un bel po' a guardare l'immobile film di un vecchio che se ne andava. Poi si sporse verso il letto e disse:
- Quindicesimo del secondo tempo. Zero a zero. L'arbitro fischia e convoca i due capitani. Gli dice che è molto stanco, che non sa cosa gli è successo, ma è così stanco, e vuole tornare a casa. Vorrei tornare a casa, dice. Stringe la mano a tutt'e due, poi si volta e camminando lento attraversa il campo, verso gli spogliatoi. Il pubblico lo guarda in silenzio. I giocatori rimangono immobili. C'è il pallone, fermo in mezzo all'area, ma nessuno lo guarda. L'arbitro si infila il fischietto in tasca, mormora qualcosa che nessuno può sentire e sparisce nel tunnel.
Le mani di Taltomar non si mossero. Le palpebre tremavano appena, la macchina respirava. Gould rimase immobile, ad aspettare. Guardava le labbra di Taltomar. Senza la solita cicca spenta sembravano disabilitate. Dal corridoio si sentiva la donna che piangeva con una voce da bambina. C'era tempo che passava, del tempo, che passava.
Quando si alzò, Gould rimise la sedia al suo posto. Prese il cappotto e lo tenne sul braccio perché faceva un caldo cane. Diede ancora un'occhiata alla macchina che respirava. Poi si fermò ai piedi del letto, solo un attimo.
- Grazie, professore -, disse.
Grazie, pensò.
Poi uscì. Scese i sei piani di scale, attraversò il grande salone di ingresso dove vendevano i giornali e i malati in pigiama telefonavano a casa. La porta per uscire era a vetri e si apriva solo quando ti avvicinavi. Fuori c'era il sole. Poomerang e Diesel lo stavano aspettando appoggiati a un cassonetto della spazzatura. Se ne andarono insieme, risalendo il viale alberato che portava verso il centro. Ballavano tutti e tre il passo sbilenco di Diesel, ma con arte, e un'eleganza da professionisti.
Solo dopo un po', quando erano ormai arrivati all'incrocio con la Settima, Poomerang si passò una mano sul cranio rapato e non-disse:
- I due capitani si consultano, poi le due squadre ricominciano a giocare. E non smettono di farlo fino alla fine dell'eternità.
0 Comments:
Post a Comment
<< Home