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Thursday, October 11, 2007

Images and (or?) words

Il bookcrossing vercellese di una quindicina di giorni fa ha consegnato al sottoscritto, tra l'altro, Sempre meglio che lavorare di Luca Goldoni. Devo già aver citato qualche volta l'ormai storico giornalista-opinionista-polemista; nel suddetto libro, contenente ricordi di corrispondenze dall'estero da lui svolte, vi sono anche riflessioni di curioso interesse, sempre velate dal consueto filo di ironia. Oggi vi propongo questa, sul valore del testo e delle fotografie.

Avevo vent'anni, facevo il cronista a Parma, mi affidarono un servizio su Miss Italia. La figura del giornalista, allora, esercitava un certo fascino, specialmente sulle ragazze. C'era una concorrente che mi piaceva e cercai di intortarla con frasi d'effetto, da uomo che non deve chiedere mai. Verso sera credetti di averla in pugno, ma dopo cena sparì. Il mio collega fotografo, senza tante perifrasi, se l'era portata in camera con la proposta di alcune pose artistiche.
Nonostante quell'incontestabile trionfo del clic sulla parola, non passai alla Rolleiflex, né in occasioni mondane, né professionali. Ai filtri dell'obiettivo mi ostinai a preferire quelli delle mie reazioni di fronte a qualcuno o qualcosa.
Però continuai spesso a invidiare i fotoreporter, per esempio quelli che incontravo nei servizi di guerra. Affrontavamo gli stessi rischi, provavamo le stesse emozioni. Ma loro le consumavano sul posto: inquadravano, scattavano e quando tornavano in albergo avevano già finito. L'abilità con cui avevano saputo cogliere volti o situazioni era già racchiusa nei rullini: dovevano solo pensare a spedirli.
Per me, invece, il lavoro cominciava allora, e cominciava la sofferenza. Avevo un taccuino scarabocchiato da decifrare, avevo sensazioni da ricostruire a freddo, immagini e stati d'animo da tradurre in parole. Scrivevo, accartocciavo il foglio, ricominciavo. Spesso mi disperavo (perché questa sensazione è così precisa dentro di me e non riesco a metterla a fuoco in una frase?). E intanto i miei colleghi fotografi erano già a cena, allegri, eccitati, appagati dalle centinaia di clic con cui avevano narrato una storia.
In fondo, mi dicevo, basta un clic per consegnare i grandi avvenimenti all'eternità: per esempio la guerra di Spagna è racchiusa nella celeberrima foto di Robert Capa sulla morte del miliziano e la guerra nel Pacifico ha un altro marchio inconfondibile: l'inquadratura dei marines che piantano la bandiera su Iwo Jima.
Altre volte però mi sentivo privilegiato nei confronti dei miei colleghi fotoreporter. Era accaduto qualcosa di importante e non l'avevamo saputo. Io potevo mendicare qualche informazione da un collega caritatevole e rimediare un articolo di fortuna. Loro no: non si può inventare una foto che non si è scattata. Una volta, rientrando dall'Unione Sovietica, i militi di frontiera sequestrarono tutti i rullini del mio collega. A me non potevano sequestrare la memoria.
E poi c'era l'incidente tecnico, sempre in agguato nel lavoro del fotoreporter: lo stesso Capa, sbarcando in Normandia con la prima ondata, rischiò di lasciarci la vita per nulla. Aveva due Contax, scattò centosei fotografie e uscì vivo dall'inferno. Ma quando spedì in laboratorio i rullini, gli distrussero i negativi per eccesso di essiccazione. Si salvarono miracolosamente solo otto fotogrammi. E sono queste otto istantanee che oggi rappresentano l'iconografia storica del Giorno più lungo.
La suggestione, la sintesi immediata dei grandi avvenimenti dunque è racchiusa più in un'immagine che in migliaia di parole. E tuttavia, se vogliamo approfondire l'emozione di questi celebri flash, dobbiamo ripiegare sulle cronache. Voglio dire che, senza le straordinarie pagine di Cornelius Ryan sul D-Day, le otto storiche foto di Capa sarebbero sospese nel vuoto.
D'altronde ci sono immagini scritte, più incise di fotografie: ne ricordo una, contenuta nella
Ritirata di Russia di Egisto Corradi: "Quei cavalli e quei muli che, colpiti dalle cannonate anticarro, venivano sollevati un poco da terra e si squarciavano come giganteschi papaveri rossi".
Si può scrivere per fotogrammi e si possono scattare foto che racchiudono centinaia di parole. L'importante è saperlo fare. Ciò che rifiuto è la tesi secondo la quale un reportage fotografico "testimonia" più inequivocabilmente di un reportage scritto. Esistono falsi clamorosi che sono emersi anche dalla bacinella della camera oscura: la già citata foto dei marines a Iwo Jima, per esempio, non consacra l'attimo della vittoria. Fu una "posa" studiata e ristudiata, dopo la battaglia, dall'inviato dell'Associated Press, Joe Rosenthal.
La verità si può dire o si può mistificare con le parole e con le immagini. Stare a discutere se siano meglio le une o le altre è una perdita di tempo. Una sola illusione mi sono tolto quasi subito: che il giornalista possa essere contestualmente fotografo e viceversa.
Per qualche anno ci ho provato e mi trovavo sempre dinanzi a bivi angosciosi: vado dove devo vedere, o vado dove devo ascoltare? Ho rischiato l'alienazione, finché non ho definitivamente rinunciato alla Rollei. E m'è rimasta un'ombra di quella nevrosi, al punto che scatto malvolentieri, anche se c'è da fare una foto ricordo in piazza San Marco.

(Luca Goldoni, Sempre meglio che lavorare, Milano, RCS Rizzoli Libri, 1989, pp. 71-73)

1 Comments:

Blogger Giacomo said...

Perspicace! :)

October 12, 2007 11:31 am  

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