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Wednesday, April 09, 2008

Intervista a Pollini su Classic Voice

Il numero di aprile di Classic Voice pubblica un'interessante intervista a Maurizio Pollini in occasione dell'anniversario del 1968. Il colloquio (con Sandro Cappelletto) è davvero illuminante su molti aspetti: c'è modo di riflettere su un passato che ha visto anche Pollini (a suo modo) protagonista attivo, nonché su un presente sempre più difficile da recepire e interpretare. Indicativo è il fatto che per farci spiegare qualcosa sulla storia del nostro paese e della società contemporanea dobbiamo rivolgerci a uno dei massimi pianisti attualmente in attività, che non ha certo problemi a parlare di questi argomenti, ma sicuramente preferirebbe suonare... Peccato che attualmente le persone preposte a spiegare storia e società siano – salvo eccezioni – scorrette o latitanti... Ben venga perciò l'autorevole "supplenza" di Pollini!

Esercizi di memoria
Ieri una grande tensione volta al rinnovamento, "che però poteva essere maggiore". Oggi il declino. Ma anche la necessità di ricordare. Parola di Maurizio Pollini, protagonista a modo suo di una stagione rivoluzionaria. Anche musicalmente.

"Contatti diretti pochi, in verità. Non ricordo che il Movimento studentesco, a Milano come nelle altre città, dedicasse molta attenzione alla nostra musica". Nel 1968 Maurizio Pollini, milanese, aveva ventisei anni, da otto aveva vinto il concorso Chopin di Varsavia; con calma, senza ansie di affermazione immediata, la sua carriera era già iniziata. Anche se assemblee studentesche ne frequentava poche, il suo modo di abitare la musica cominciava a delinearsi con evidenza. Adesso, due generazioni dopo, in un pomeriggio senza fretta, interrompendo lo studio per accogliere l'ospite, il pianista milanese accetta di conversare su quegli anni e su quegli argomenti.
"Il problema non è se ogni artista debba avere anche un impegno politico: posta la domanda in questi termini, la risposta è ovviamente no. Ma credo che ogni uomo dovrebbe essere consapevole del contesto politico nel quale vive e prendere le sue posizioni".
Molti artisti presero e prendono posizione. Naturalmente non in modo meccanico, né tanto meno ortodosso rispetto a qualche preciso programma politico, come invece i politici spesso vorrebbero. Un caso evidente è Beethoven, l'intenso rapporto che ha avuto con la cultura e la politica del suo tempo.
"In ogni genio deve esserci una componente rivoluzionaria. In Beethoven è evidentissima, come conseguenza dell'Illuminismo, della Rivoluzione francese e delle speranze straordinarie che esistevano in quel tempo. Di un profondo senso di gioia, del resto presente anche in Haydn e Mozart".
E adesso? Quarant'anni dopo il 1968, come fa, come può un ragazzo che abbia i vent'anni che lui aveva allora conservare dentro di sé, sentire vivi questi sentimenti di speranza e di gioia?
"Oggi i giovani dovrebbero essere molto più informati sulle vicende del recente passato del nostro paese. Esercitare la memoria, capire per poi eventualmente opporsi".
Opporsi a che cosa?
"All'identificazione. Alla convinzione che non sia possibile un'organizzazione economica diversa da quella in cui stiamo vivendo. Alla vittoria definitiva del culto del denaro e dell'apparente efficienza capitalista. Alla perdita della fantasia, dell'utopia e dunque anche della speranza. Ma nella storia non vi è nulla di definitivo ed è prerogativa dei giovani immaginare il cambiamento".
Quale il debito maggiore verso quegli anni?
"La necessità che si avvertiva di pensare in modo autonomo. Di non prendere le certezze dei genitori come verità sicure una volta per tutte, di elaborare una visione autonoma del mondo. Un'attitudine molto legata alle esperienze artistiche di allora. Pur con tutti i riflussi che si sono susseguiti, questo cambio di mentalità è rimasto radicato nella società".
Aveva un suo idolo?
"Bertrand Russell, una figura oggi quasi dimenticata. Ci ha insegnato la libertà del pensiero, in una concezione democratica della società che lo metteva in collisione con l'ideologia marxista. Ha creato il Tribunale Russell contro i crimini di guerra dell'imperialismo americano. Poi, abbiamo purtroppo scoperto l'esistenza di molte altre realtà che avevano questo carattere oppressivo".
Quando è finito, in Italia, lo spirito del '68?
"Con il delitto Moro, nel 1978. Trent'anni fa. Enrico Berlinguer aveva visto giusto con la sua ipotesi del compromesso storico come unica forma di governo possibile in Italia. Un progetto ucciso dalla morte di Moro. E non dobbiamo stancarci di ripetere che rispetto a quel delitto, come verso altre stragi, prima di tutto quella della stazione di Bologna, non conosciamo ancora l'intera verità.
Nel campo della creazione musicale, quali sono stati gli esiti più notevoli?
"Sono stati molti i compositori italiani, penso naturalmente a Luigi Nono e Luciano Berio, che hanno portato avanti uno straordinario rinnovamento del linguaggio, con libertà rispetto agli schemi accademici, con una mentalità più aperta. Hanno cominciato, come all'estero Boulez e Stockhausen, a creare opere prima impensabili. Si stava affermando una visione del mondo completamente nuova e il rinnovamento artistico, come sempre succede, ha preceduto quello politico".
Il Sessantotto ha avuto una forte componente internazionalista. Tra i compositori italiani, particolarmente evidente in Luigi Nono, che in Como una ola de fuerza y luz e nella Floresta è jovem e chea de vida si ispira a testi di poeti e rivoluzionari americani e africani.
"È stato grazie alla Floresta, eseguita in prima alla Biennale Musica del 1966, che mi sono avvicinato alla musica di Luigi Nono. Ne fui molto impressionato, gli chiesi se non avesse il desiderio di scrivere qualcosa per pianoforte. Vennero poi Como una ola e ... sofferte onde serene... Tra noi si è poi sviluppata anche una profonda amicizia. Ma a dire la verità di politica parlavamo poco".
Nascono in quegli anni, anche alla Scala, i "Concerti per lavoratori e studenti". Ed è grazie a queste iniziative che anche il giovane Sergio Cofferati, allora operaio alla Pirelli, si avvicina alla musica, al melodramma. Prende avvio l'esperienza di "Musica e realtà" a Reggio Emilia. Alcuni interpreti manifestano concreta solidarietà verso le lotte operaie: lei suona l'Imperatore di Beethoven nei capannoni dell'Ansaldo di Genova, durante l'occupazione. Qualche operaio ricorda ancora quanta attenzione avesse per ottenere, in quelle condizioni, la migliore resa del suono...
"Si avvertiva l'urgenza di incontrare un pubblico nuovo, diverso. E di rendersi disponibili. C'è stato davvero molto entusiasmo".
Finito tutto?
"Settembre Musica, a Torino, nato per iniziativa di Giorgio Balmas, prosegue ancora una politica più aperta verso il pubblico. Indubbiamente quelle esperienze alla Scala, con Paolo Grassi, Claudio Abbado, il coinvolgimento dei consigli di fabbrica di tanti lavoratori che scoprivano il 'grande' teatro, hanno prodotto qualcosa di nuovo, che non poteva però proseguire senza un'adeguata evoluzione. Il rinnovamento poteva essere maggiore".
La musica, il suono dominante in quegli anni, è stato il rock. Vennero scritte anche molte "canzoni impegnate", alcune destinate a vita breve, altre così pregnanti da diventare delle voci e delle memorie condivise e credibili. Ma soprattutto si è affermata allora la persuasione che tra i generi musicali esiste una pari dignità culturale.
"Certo: non esiste materiale che non si possa utilizzare musicalmente. Poi, dipende dagli esiti artistici che si raggiungono. Lo spartiacque l'ha segnato Beethoven, ribadendo l'autonomia della ricerca del compositore rispetto alle esigenze e alle attese del mercato".
Altre differenze tra i generi?
"Una è decisiva e consiste nel tipo di ascolto. Il consumismo, nel campo musicale, ci induce a un ascolto passivo, indifferente, da sottofondo".
Pierre Boulez ammirava Frank Zappa, Luciano Berio si è interessato, e ha scritto un saggio, sulla musica rock, separando il grano dal loglio.
"Ma questo accadeva tempo fa! Oggi, salvo casi che non conosco, c'è un degrado fortissimo della musica leggera, un livello spaventoso di banalità. Se pensiamo al jazz degli anni d'oro, prevalgono una sconfortante povertà, l'assenza di immaginazione musicale. Anche per questo è così importante offrire ai giovani possibilità di ascolto più specifiche e intelligenti.
Milano, 12 dicembre 1969, strage di piazza Fontana. Era lì?
"Sono corso in piazza del Duomo, la reazione democratica della folla, la quantità e la determinazione di tutte quelle persone mi hanno fatto sentire che non ci sarebbe stata una svolta autoritaria. Però abbiamo rischiato un colpo di stato fascista, per allineare l'Italia alle dittature dei colonnelli greci, di Franco in Spagna, di Salazar in Portogallo".
La scena internazionale. La guerra nel Vietnam, i bombardamenti statunitensi sul nord del paese, i defolianti, le bombe al napalm, l'invocazione di Paolo VI perché cessassero. E il suo discorso alla Società del Quartetto...
"No, non riuscii nemmeno a parlare. Giunto alla quinta o sesta parola, appena pronunciato il nome 'Vietnam', si scatenò dalla platea come un'ondata di protesta. Nella mia ingenuità, ero convinto che avrei potuto leggere fino in fondo quella dichiarazione, firmata da tanti musicisti italiani. Il concerto poi non ebbe luogo".
Milano è la sua città da sempre. Molto cambiata oggi da allora.
"Milano è cambiata da quando il Partito socialista ha finito di avere la sua influenza in città, travolto da Mani Pulite. Un'iniziativa ottima, intendiamoci, ma che nei fatti ha creato un vuoto politico riempito da figure e modalità opposte".
Nel '68 il nemico erano il padrone e la sua fabbrica, l'imperialismo, la cultura borghese. Oggi?
"La caduta del muro di Berlino, lo sgretolamento dei paesi socialisti sembra aver fatto perdere ogni speranza, anche quelle mal riposte, per una organizzazione economica diversa da quella in cui viviamo".
Non ci sono più speranze, non esistono più nemmeno pericoli?
Uno è enorme: il vuoto di memoria. Se il livello di vita in Europa continua a essere molto più disteso che in altre parti del mondo, molto è dovuto alle conquiste sociali del dopoguerra, fino agli anni Ottanta. Oggi c'è troppa enfasi sulle virtù del mercato, e invece non c'è abbastanza coscienza di quanto la nostra vita democratica deve allo stato sociale, di quale pericolo rappresenti la precarietà. Quelle conquiste non vanno dimenticate: si può modernizzare lo stato sociale, ma non mutarne la sostanza".
Sono passate due ore, il maestro ha voglia di riprendere a suonare, a studiare: la sua disciplina, da sempre. Accompagna l'ospite alla porta; poi, sulla soglia, prima del congedo: "Sa qual è il vero rischio? Il PIL sarà sempre più alto, ma noi saremo tutti morti!".

2 Comments:

Blogger Cilions said...

Geniale, come sempre;)

April 09, 2008 1:25 pm  
Blogger Giacomo said...

Scovare persone intelligenti e starle ad ascoltare (o leggere) è uno dei miei piaceri preferiti... impegnandosi solo un po', in fin dei conti, se ne scoprono più di quante ci si aspeterebbe...!

Forse si può ancora sperare. E, anche meglio, fare qualcosa di costruttivo.

April 11, 2008 1:53 pm  

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