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Friday, October 12, 2007

Tomorrow in the battle think of me

[...] Il malessere di Marta mi stava facendo pensare cose sinistre, e sebbene respirassi e mi sentissi meglio sulla porta della stanza del bambino, a guardare gli aerei nel buio e a ricordare vagamente il mio passato remoto, pensai che ormai sarei dovuto tornare di là da lei, per vedere come stava o per cercare di aiutarla, forse spogliarla del tutto ma soltanto per metterla a letto e coprirla e assecondare il sonno che con un po' di fortuna poteva averla sopraffatta durante la mia breve assenza, e poi me ne sarei andato.
Ma non è stato così. Quando sono entrato di nuovo ha sollevato lo sguardo e con gli occhi socchiusi e appannati mi ha guardato dalla sua posizione contratta e immobile, l'unico cambiamento consisteva nel fatto che adesso copriva la sua nudità con le braccia come se sentisse vergogna o freddo. "Vuoi infilarti nel letto? Così prenderai freddo", le ho detto. "No, non muovermi, per favore, non muovermi di un millimetro", ha detto, e poi ha aggiunto subito dopo: "Dov'eri?" "Sono andato in bagno. Non ti passa, bisogna fare qualcosa, chiamo un'ambulanza". Ma lei non voleva essere spostata né disturbata né distolta ("No, non fare ancora niente, non fare niente, aspetta") né di sicuro voleva rumori e movimenti accanto a sé, come se provasse tanto timore da preferire la paralisi assoluta di tutte le cose e rimanere almeno nello stato e nella posizione che le permettessero di continuare a vivere anziché osare una variazione, sia pure minima, che avrebbe potuto compromettere la sua momentanea stabilità del tutto precaria - la sua calma ormai temibile - e che le procurava il panico. Questo è ciò che fa il panico ed è ciò che di solito porta alla perdizione quanti lo subiscono: fa credere loro che, immersi nel male o nel pericolo, siano tuttavia in salvo. Il soldato che resta in trincea quasi senza respirare e immobile pur sapendo che tra poco sarà presa d'assalto; il passante che non vuole mettersi a correre quando si accorge che dei passi lo seguono nella notte a tarda ora in una strada isolata; la puttana che non chiede aiuto dopo essere salita su una macchina le cui sicure si chiudono automaticamente e dopo essersi resa conto che non sarebbe mai dovuta andare con quell'individuo dalle mani così grandi (forse non chiede aiuto perché non si sente del tutto in diritto di farlo); lo straniero che vede abbattersi sulla propria testa l'albero che è stato colpito dal fulmine e non si scosta, ma lo guarda cadere lentamente sul grande viale; l'uomo che vede un altro uomo procedere in direzione del suo tavolino con un coltello in mano e non si muove né si difende, perché crede che tutto ciò non gli stia capitando davvero e che quel coltello non si conficcherà nel suo ventre, il coltello non può avere le sue viscere come destinazione; o il pilota che vede il caccia nemico riuscire a collocarsi dietro di sé e non fa l'ultimo tentativo per uscire dal suo mirino con una acrobazia, nella certezza che anche se avesse tutti i vantaggi, l'altro mancherebbe il bersaglio perché stavolta è lui il bersaglio. "Domani nella battaglia pensa a me, e cada la tua spada senza filo". Marta doveva sentirsi dipendere da ogni secondo, magari li contava mentalmente uno per uno, dipendere dalla continuità che è quella da cui riceviamo non soltanto la vita ma anche la sensazione della vita, quella che ci fa pensare e dire a noi stessi: "Ancora penso, o ancora parlo, ancora leggo o ancora guardo un film e perciò sono vivo; scorro la pagina della rivista o bevo un altro sorso della mia birra o completo un'altra parola del mio cruciverba, ancora osservo e distinguo cose - un giapponese, una hostess - e questo vuol dire che l'aereo su cui viaggio non è caduto, fumo una sigaretta ed è la stessa di qualche secondo prima e credo che riuscirò a finirla e ad accenderne un'altra, cosicché tutto continua e non posso neppure fare niente contro tutto questo, dal momento che non sono disposto a uccidermi né voglio farlo né mi accingo a farlo; quest'uomo dalle mani così grandi mi accarezza il collo e non stringe ancora: sebbene mi accarezzi con una certa forza e mi faccia un po' male, continuo a sentire le sue dita pesanti e dure sui miei zigomi e sulle mie tempie, le mie povere tempie - le sue dita sono come tasti -; e sento ancora i passi di quella persona che vuole derubarmi nel buio, o forse sbaglio e sono i passi di qualcuno inoffensivo che non riesce a camminare più svelto e a superarmi, forse dovrei dargliene l'occasione tirando fuori gli occhiali e fermandomi a guardare una vetrina, ma può darsi che allora smetterei di sentirli, e quello che mi salva è continuare a sentirli; e sono ancora qui nella mia trincea con la baionetta in canna di cui presto dovrò fare uso se non voglio vedermi trafitto da quella del mio nemico: ma ancora no, ancora no, e finché sarà ancora no la trincea mi nasconde e mi protegge, anche se siamo in campo aperto e sento il freddo sulle orecchie che l'elmetto non arriva a coprire; e il coltello che si avvicina impugnato da quella mano non è ancora arrivato alla sua destinazione e io rimango seduto al mio tavolo e nulla si lacera, e contrariamente a quel che sembra berrò ancora un altro sorso, e un altro, e un altro, della mia birra; poiché ancora non è caduto quell'albero, e non cadrà neppure se è stato spezzato e si rovescia, non su di me, né i suoi rami falceranno via la mia testa, non è possibile perché io sono in questa città e in questo viale soltanto di passaggio, e sarebbe altrettanto facile che io non vi fossi; e ancora continuo a vedere il mondo dall'alto, dal mio Spitfire supermariner, e non provo ancora la sensazione di discesa e di fardello e di vertigine, di caduta e di gravità e di peso che proverò quando il Messerschmitt che mi si è messo alla coda e mi tiene sotto tiro aprirà il fuoco e mi colpirà: ma ancora no, ancora no, e finché sarà ancora no posso continuare a pensare alla battaglia e a guardare il paesaggio, e a fare progetti per il futuro; e io, povera Marta, sento ancora la luce della televisione che è rimasta accesa e il calore di quest'uomo che continua a stare al mio fianco e mi fa compagnia. E fino a quando rimarrà al mio fianco non potrò morire: che resti qui e non faccia niente, non mi parli e non chiami nessuno e non modifichi niente, mi dia un po' di calore e mi abbracci, ho bisogno di stare calma per non morire, se ogni istante è identico al precedente non avrebbe senso che io cambiassi, che le luci rimanessero accese qui e in strada, e la televisione continuasse a trasmettere, mentre io muoio, un vecchio film di Fred MacMurray". [...]
Ho obbedito, ho aspettato, non ho fatto niente e non ho chiamato nessuno, sono soltanto tornato al mio posto nel letto, che non era il mio ma quella notte continuava a esserlo, mi sono messo di nuovo accanto a lei e allora lei mi ha detto senza girarsi e senza vedermi: "Tienimi, tienimi, per favore, tienimi", e voleva dire che la abbracciassi e così ho fatto, l'ho abbracciata dalla schiena, la mia camicia ancora aperta e il mio petto entrarono in contatto con la sua pelle liscia che era calda, le mie braccia passarono sopra le sue, con le quali si copriva, su di lei quattro mani e quattro braccia adesso e un doloroso abbraccio, e di certo non bastava, mentre il film alla televisione andava avanti senza audio in silenzio e senza che noi ci badassimo, ho pensato che un giorno o l'altro avrei dovuto vederlo prestandoci attenzione, in bianco e nero. Me lo aveva chiesto per favore, il nostro vocabolario è radicato a fondo, non ci si dimentica mai come si è stati educati né si rinuncia alla propria dizione e al proprio modo di parlare in nessun momento, neppure nella disperazione o nella collera, accada quel che accada, e anche se si è sul punto di morte. Sono rimasto per un po' così, disteso sul letto e abbracciato a lei come non avevo programmato e allo stesso tempo come era previsto, come c'era da aspettarsi da quando ero entrato in quella casa e anche prima, da quando avevamo fissato l'appuntamento e lei aveva chiesto o proposto che non fosse per strada. Ma questo era un'altra cosa, un altro tipo di abbraccio non annunciato da nessun presentimento, e allora ho avuto la sicurezza di ciò che fino a quel momento non mi ero permesso di pensare, o di sapere che pensavo: ho saputo che quella cosa non era passeggera e ho pensato che poteva essere conclusiva, ho saputo che non era dovuta al pentimento né alla depressione né alla paura e che era imminente: ho pensato che stava morendo tra le mie braccia; l'ho pensato e all'improvviso mi è venuta meno ogni speranza di poter uscire da lì, come se lei mi avesse contagiato la sua ansia di immobilità e di quiete, o forse era già un'ansia di morte, ancora no, ancora no, ma ormai non posso più, non posso più.

(Javier Marías, Domani nella battaglia pensa a me, Torino, Einaudi, 1998 [trad. di Glauco Felici], pp. 23-29)

4 Comments:

Anonymous Anonymous said...

hey hey fai il bravo mhhhhh!

October 12, 2007 10:21 pm  
Anonymous Anonymous said...

mass'i'i'i'''...Spero di sentirti presto, e comunque, MANNAGGIA ALLA TASTIERA [NORTE]AMERICANA!

beso

October 15, 2007 3:14 pm  
Blogger Choppa said...

Mi sento un po' troppo coinvolta in questo pezzo, sarà l'omonimia...

October 16, 2007 12:30 pm  
Blogger Radiant said...

È un libro che ti consiglio vivamente; ma magari l'hai già letto. Secondo me è meritevole assai. Di Marías avevo letto anche El hombre sentimentàl, in lingua originale. Devo dire che è un narratore davvero molto interessante, che devo a mia volta approfondire.

October 16, 2007 1:06 pm  

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