Home & New York Suite
Ebbene sì, cari amici (uh... che bell'esordio da Superstoria last revision... :o ), nuovo disco per i Magenta, gruppo pressoché misconosciuto in Italia ma con una discreta fama, seppur sempre tra un pubblico di estimatori del genere, in Gran Bretagna. Dopo il doppio album d'esordio (... tanto per cominciare con qualcosa di semplice!) Revolution, interessante ma forse eccessivamente carico di materiale sfruttato non sempre a dovere, e il bellissimo Seven, concept sui sette peccati capitali (idea presa a prestito da un noto film ma elaborata in maniera completamente diversa), ecco Home, che esce in due edizioni, una semplice e una con accluso l'EP (... si fa per dire! Sono pur sempre altri quaranta minuti di gran musica) New York Suite, ideale complemento al disco principale. Trattasi di un concept basato sulla storia di un viaggio alla ricerca di un posto da chiamare "casa" da parte di una ragazza che, negli anni '70, parte dall'Inghilterra verso gli Stati Uniti. Ma sul sito trovate tutto lo spiegone, per la precisione qui, e perciò non scrivo cose ridondanti giusto per riempire righe su righe! C'è anche la copertina dell'album, malinconicamente evocativa.
Che dire... il processo di evoluzione del gruppo procede molto bene, con passi giustamente cadenzati. Volutamente (si legga il primo intervento di Rob Reed sulla pagina che ho linkato) il mood è generalmente più tranquillo rispetto ai lavori precedenti. Dichiarazione d'intenti perfettamente rispettata, e già qui tanto di cappello: il controllo sull'atmosfera del disco è cosa sempre difficile e qui esso si rivela pressoché perfetto. L'unico "difetto" non è in realtà tale: al primo ascolto, non è per niente semplice trovarsi a proprio agio... ci si comincia a capire qualcosa dopo qualche più attenta disamina delle tracce, e si comincia a notare che il valore musicale c'è, eccome!
Inizio soft e pensieroso: semplicissimo duetto tra il pianoforte di Reed e l'ulteriormente migliorata voce (e può ancora migliorare!) di Christina, luci basse e un po' di sconcerto in sala per un avvio non così consueto; ma la vera e propria ouverture non si fa attendere, e secondo uno schema non così usuale ma già brillantemente adoperato dai Dream Theater con Metropolis pt. 2, a un primo movimento meditativo e calmo segue la vera e propria introduzione. Hurt ha la netta bipartizione tipica di molti brani dei Magenta: su un bel ritmo sostenuto e staccato si sviluppa la prima parte, poi cesura netta e... spuntano i Pink Floyd! Super citazione, non certo nascosta, di Breathe: stessa progressione armonica, ritmo quasi uguale e perfino una slide guitar; gradevole, anche se il gioco è davvero troppo scoperto! Il tutto per introdurre uno dei temi musicali ricorrenti qua e là durante il disco.
E le citazioni floydiane non finiscono qui: The visionary è uno dei brani più belli del disco, e la chitarra ricalca la mitica ritmica della sezione centrale di Dogs, da Animals ("And when you lose control..."). Questa volta struttura unitaria e un forte accento sul pathos per un momento centrale dell'album. Ottimo Chris Fry alla chitarra, del resto fondamentale per il sound del gruppo. La signorina Booth è superlativa: voce da brivido, letteralmente, avvolgente ed espressiva, fraseggio e intonazione perfetti e nel finale anche un salto d'ottava à la Kate Bush al culmine del climax. Insomma: averne di brani così...
Joe, probabile chiave di volta del concept, è lunga ed elaborata, con ottimi cori sovraincisi da Christina nella prima parte, una seconda sezione di scambi strumentali su una classica progressione ascendente di accordi maggiori, stacco secco e breve momento semiacustico, un moto perpetuo di arpeggi di pianoforte e un crescendo molto ben graduato e, giustamente, non portato all'esasperazione; dopo un bel solo di chitarra, ultima sezione di allentamento della tensione e fade in verso The dream, breve interludio verso l'ultima parte del disco. E come non rilevare, nell'ascoltare lo stacco tra The dream e The visionary, la raffinata reminiscenza di Fly on a windshield (Genesis, The lamb lies down... ma che ve lo scrivo a fare!). Anche in questo caso, tributo niente affatto formale o forzato, bensì di notevole ricercatezza e raffinatezza.
Tributo agli Yes, come del resto esplicitato da Rob, nell'intro della complessa The journey, comprendente anche una bella sezione contrappuntata di ascendenza Jethro-Tulliana (personalmente, mi ha fatto tornare in mente l'interludio di Songs from the wood...)! Atmosfere più da classic ballad per Towers of hope, il cui tema ritorna poi nella finale Home, che funziona da "rimanenti strofe" con il valore aggiunto delle notevoli orchestrazioni: ottima idea per una perfetta outro, con una coda strumentale di solo piano in sintonia con This life e l'accordo del quarto grado a simboleggiare una molto ipotezzabile lettura circolare del lavoro.
E in tutto questo il prog dove sta, ci si può chiedere? Seppure "melodico", sempre prog esso si dichiara! E va bene: niente unisoni da brivido chitarra-tastiera, niente time signatures illeggibili, niente virtuosismi gratuiti, ed anzi una cantante che fa di tutto per salvaguardare la sua ottima voce e si auto-limita, senza peraltro alcun detrimento per la musicalità del tutto. Ma: armonie ricercate ben distribuite e sempre a servizio del pezzo, rifiuto della forma-canzone strofa-refrain-strofra-refrain-bridge-refrain-refrain-eccheppalle!!! a favore di una libertà pressoché assoluta di disposizione delle sezioni, suoni anti-commerciali e con un piede nel passato glorioso del prog anni '70 (Genesis in testa) e l'altro nella pulizia e definizione sonora delle nuove tecnologie, un concept che funge da linea guida efficace di più di un'ora e mezza di musica. E TUTTAVIA, se a qualcuno ciò non bastasse e, preferendo le più ortodosse (si fa per dire) progmelodie di Seven, di corsa sul secondo disco: la New York Suite, che Reed suggerisce di leggere come interpolata tra Towers of hope e Morning sunlight (frapponendovi Demons... ehllamadonna, che cumplicassiùn!), sicuramente soddisferà le aspettative dei palati più esigenti. Home from home ha un riffetto iniziale che farà la felicità dei cultori dell'ortodossia progrocchettara, nonché synth pseudo-Moog. Stesso discorso per White lies: intro con ostinato di chitarra con delay secco e corto e mutazioni armoniche, altri Moog qua e là, sezione semiacustica... chi più ne ha più ne metta. In Truth l'ultima citazione di Waters, Gilmour & C., e si rafforza l'impressione che le fonti individuate siano proprio quelle sopra indicate: le due chitarre che portano verso l'ultima sezione cantata sembrano outtakes della già citata Dogs. Difficile che sia un caso...!
Un discorso a parte merita la produzione, sempre migliore man mano che si va avanti, dei dischi dei Magenta: Rob Reed, da questo punto di vista, è veramente in gamba. Per quanto riguarda le sue tastiere, suoni così gradevoli e, soprattutto, perfettamente adatti ai vari momenti dei diversi brani, raramente mi è capitato di sentirne. Pianoforti delicati, timbrici e con una buona dinamica; piani elettrici di ottima fattura e alquanto ricercati (inizio di Journey's end su tutti), con talora un chorus a ping pong che fa girare la testa se ascoltato in cuffia (The journey). Organi SPETTACOLARI, tutti! Più standard le string sections, comunque sempre molto naturali. Synth mai aggressivi ma sempre con un ottimo corpo e ben presenti: bellissimo ad esempio quello all'inizio di The visionary, perfettamente amalgamato con le parti di chitarra, o quello più tirato sugli acuti, e ciò nonostante per nulla tagliente, nell'interludio di Joe.
Nulla da eccepire sulle chitarre: molto "Genesis revisited" (!), unitamente alla capacità espressiva del solista Chris Fry e alla precisione ritmica e pulizia d'esecuzione di Martin Rosser, fanno da sole un punto di forza rimarchevole del disco. Anche il basso comincia a farsi sentire con la giusta presenza, ma senza mai invadere eccessivamente o sbilanciare l'equilibrio complessivo; forse anche merito del nuovo bassista, Daniel Fry, fratello di Chris.
Cosa non va? Come in Seven, i testi non sono all'altezza del resto: i Magenta meritano di più. Secondariamente, un batterista tecnicamente migliore aggiungerebbe valore a una sezione ritmica a volte davvero troppo scarna; per dare a Cesare quel che è di Cesare, dobbiamo però riconoscere ad Allan Mason-Jones una capacità metronomica davvero invidiabile: avendo visto il DVD The gathering, possiamo garantire che non perde un colpo in tutto il concerto! Studiare qualche chop in più no, eh? Vabbè. Ma in fondo, magari neppure serve.
Da ultimo, segnalo la recensione di ProgressiveWorld, con la quale mi trovo molto d'accordo. E, in linea con quanto detto dall'estensore dell'articolo, non posso che esortare i Magenta affinche non si siedano sugli allori: di lavoro ce n'è ancora da fare, e la direzione sembra buona!
Che dire... il processo di evoluzione del gruppo procede molto bene, con passi giustamente cadenzati. Volutamente (si legga il primo intervento di Rob Reed sulla pagina che ho linkato) il mood è generalmente più tranquillo rispetto ai lavori precedenti. Dichiarazione d'intenti perfettamente rispettata, e già qui tanto di cappello: il controllo sull'atmosfera del disco è cosa sempre difficile e qui esso si rivela pressoché perfetto. L'unico "difetto" non è in realtà tale: al primo ascolto, non è per niente semplice trovarsi a proprio agio... ci si comincia a capire qualcosa dopo qualche più attenta disamina delle tracce, e si comincia a notare che il valore musicale c'è, eccome!
Inizio soft e pensieroso: semplicissimo duetto tra il pianoforte di Reed e l'ulteriormente migliorata voce (e può ancora migliorare!) di Christina, luci basse e un po' di sconcerto in sala per un avvio non così consueto; ma la vera e propria ouverture non si fa attendere, e secondo uno schema non così usuale ma già brillantemente adoperato dai Dream Theater con Metropolis pt. 2, a un primo movimento meditativo e calmo segue la vera e propria introduzione. Hurt ha la netta bipartizione tipica di molti brani dei Magenta: su un bel ritmo sostenuto e staccato si sviluppa la prima parte, poi cesura netta e... spuntano i Pink Floyd! Super citazione, non certo nascosta, di Breathe: stessa progressione armonica, ritmo quasi uguale e perfino una slide guitar; gradevole, anche se il gioco è davvero troppo scoperto! Il tutto per introdurre uno dei temi musicali ricorrenti qua e là durante il disco.
E le citazioni floydiane non finiscono qui: The visionary è uno dei brani più belli del disco, e la chitarra ricalca la mitica ritmica della sezione centrale di Dogs, da Animals ("And when you lose control..."). Questa volta struttura unitaria e un forte accento sul pathos per un momento centrale dell'album. Ottimo Chris Fry alla chitarra, del resto fondamentale per il sound del gruppo. La signorina Booth è superlativa: voce da brivido, letteralmente, avvolgente ed espressiva, fraseggio e intonazione perfetti e nel finale anche un salto d'ottava à la Kate Bush al culmine del climax. Insomma: averne di brani così...
Joe, probabile chiave di volta del concept, è lunga ed elaborata, con ottimi cori sovraincisi da Christina nella prima parte, una seconda sezione di scambi strumentali su una classica progressione ascendente di accordi maggiori, stacco secco e breve momento semiacustico, un moto perpetuo di arpeggi di pianoforte e un crescendo molto ben graduato e, giustamente, non portato all'esasperazione; dopo un bel solo di chitarra, ultima sezione di allentamento della tensione e fade in verso The dream, breve interludio verso l'ultima parte del disco. E come non rilevare, nell'ascoltare lo stacco tra The dream e The visionary, la raffinata reminiscenza di Fly on a windshield (Genesis, The lamb lies down... ma che ve lo scrivo a fare!). Anche in questo caso, tributo niente affatto formale o forzato, bensì di notevole ricercatezza e raffinatezza.
Tributo agli Yes, come del resto esplicitato da Rob, nell'intro della complessa The journey, comprendente anche una bella sezione contrappuntata di ascendenza Jethro-Tulliana (personalmente, mi ha fatto tornare in mente l'interludio di Songs from the wood...)! Atmosfere più da classic ballad per Towers of hope, il cui tema ritorna poi nella finale Home, che funziona da "rimanenti strofe" con il valore aggiunto delle notevoli orchestrazioni: ottima idea per una perfetta outro, con una coda strumentale di solo piano in sintonia con This life e l'accordo del quarto grado a simboleggiare una molto ipotezzabile lettura circolare del lavoro.
E in tutto questo il prog dove sta, ci si può chiedere? Seppure "melodico", sempre prog esso si dichiara! E va bene: niente unisoni da brivido chitarra-tastiera, niente time signatures illeggibili, niente virtuosismi gratuiti, ed anzi una cantante che fa di tutto per salvaguardare la sua ottima voce e si auto-limita, senza peraltro alcun detrimento per la musicalità del tutto. Ma: armonie ricercate ben distribuite e sempre a servizio del pezzo, rifiuto della forma-canzone strofa-refrain-strofra-refrain-bridge-refrain-refrain-eccheppalle!!! a favore di una libertà pressoché assoluta di disposizione delle sezioni, suoni anti-commerciali e con un piede nel passato glorioso del prog anni '70 (Genesis in testa) e l'altro nella pulizia e definizione sonora delle nuove tecnologie, un concept che funge da linea guida efficace di più di un'ora e mezza di musica. E TUTTAVIA, se a qualcuno ciò non bastasse e, preferendo le più ortodosse (si fa per dire) progmelodie di Seven, di corsa sul secondo disco: la New York Suite, che Reed suggerisce di leggere come interpolata tra Towers of hope e Morning sunlight (frapponendovi Demons... ehllamadonna, che cumplicassiùn!), sicuramente soddisferà le aspettative dei palati più esigenti. Home from home ha un riffetto iniziale che farà la felicità dei cultori dell'ortodossia progrocchettara, nonché synth pseudo-Moog. Stesso discorso per White lies: intro con ostinato di chitarra con delay secco e corto e mutazioni armoniche, altri Moog qua e là, sezione semiacustica... chi più ne ha più ne metta. In Truth l'ultima citazione di Waters, Gilmour & C., e si rafforza l'impressione che le fonti individuate siano proprio quelle sopra indicate: le due chitarre che portano verso l'ultima sezione cantata sembrano outtakes della già citata Dogs. Difficile che sia un caso...!
Un discorso a parte merita la produzione, sempre migliore man mano che si va avanti, dei dischi dei Magenta: Rob Reed, da questo punto di vista, è veramente in gamba. Per quanto riguarda le sue tastiere, suoni così gradevoli e, soprattutto, perfettamente adatti ai vari momenti dei diversi brani, raramente mi è capitato di sentirne. Pianoforti delicati, timbrici e con una buona dinamica; piani elettrici di ottima fattura e alquanto ricercati (inizio di Journey's end su tutti), con talora un chorus a ping pong che fa girare la testa se ascoltato in cuffia (The journey). Organi SPETTACOLARI, tutti! Più standard le string sections, comunque sempre molto naturali. Synth mai aggressivi ma sempre con un ottimo corpo e ben presenti: bellissimo ad esempio quello all'inizio di The visionary, perfettamente amalgamato con le parti di chitarra, o quello più tirato sugli acuti, e ciò nonostante per nulla tagliente, nell'interludio di Joe.
Nulla da eccepire sulle chitarre: molto "Genesis revisited" (!), unitamente alla capacità espressiva del solista Chris Fry e alla precisione ritmica e pulizia d'esecuzione di Martin Rosser, fanno da sole un punto di forza rimarchevole del disco. Anche il basso comincia a farsi sentire con la giusta presenza, ma senza mai invadere eccessivamente o sbilanciare l'equilibrio complessivo; forse anche merito del nuovo bassista, Daniel Fry, fratello di Chris.
Cosa non va? Come in Seven, i testi non sono all'altezza del resto: i Magenta meritano di più. Secondariamente, un batterista tecnicamente migliore aggiungerebbe valore a una sezione ritmica a volte davvero troppo scarna; per dare a Cesare quel che è di Cesare, dobbiamo però riconoscere ad Allan Mason-Jones una capacità metronomica davvero invidiabile: avendo visto il DVD The gathering, possiamo garantire che non perde un colpo in tutto il concerto! Studiare qualche chop in più no, eh? Vabbè. Ma in fondo, magari neppure serve.
Da ultimo, segnalo la recensione di ProgressiveWorld, con la quale mi trovo molto d'accordo. E, in linea con quanto detto dall'estensore dell'articolo, non posso che esortare i Magenta affinche non si siedano sugli allori: di lavoro ce n'è ancora da fare, e la direzione sembra buona!
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