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Saturday, June 10, 2006

La lanterna magica

Ritchie Blackmore e gentile signora sono al loro quinto disco dal '98, anno di fondazione del sodalizio artistico che ha dato vita al progetto Blackmore's Night. Tutta la storia del gruppo non è il caso che io la ripeta, se non per ricordare la scelta di forte rottura che all'epoca Blackmore aveva fatto rispetto a pressoché tutte le sue esperienze precedenti: chi ricordava la sua lead guitar nei Deep Purple o nei Rainbow era sicuramente rimasto alquanto sconcertato dalle atmosfere dell'opera prima del new deal blackmoreiano (... perdonate il barbarismo!), Shadow of the moon. Chitarre acustiche a tutto andare, strumenti antichi, temi ripresi da autori classici del '500 (Susato in testa) o dalla tradizione popolare rinascimentale, e soprattutto l'eterea voce della giovane compagna Candice Night (potrebbe essere sua figlia, credo... beato per lui, è anche una gran gnocca IMHO). Altri tre dischi belli, ma a onor del vero forse non pienamente all'altezza del debutto, con una Stratocaster che di tanto in tanto fa capolino per sonorità orchestrali o soli da brivido come solo Lui (!!!) sa fare; qualche brano veramente meritevolissimo, altri discreti. Il quinto lavoro, Village lanterne, lo dico a malincuore, sembra mostrare i limiti del progetto, che sta alquanto richiudendosi su se stesso a discapito dell'originalità e del rinnovamento interno. Forse è anche un fatto "fisiologico" dei complessi musicali, che non in molti casi riescono a tirare avanti con spunti di sempre crescente innovazione e maturazione. Comunque il disco, per chi conosce la produzione precedente, vivacchia ed entusiasma ben poco; per chi eventualmente non avesse ascoltato la discografia precedente, di sicuro è tutt'altro che un buon entry point.
Cominciamo dalle cose buone, che obiettivamente non mancano. E, mi verrebbe da dire, guarda caso... sono solitamente le tracce più "elettrificate" e ritmate, dove si sente pulsare l'anima fondamentalmente rock (per non dire HARD ROCK!) di Blackmore. I guess it doesn't matter anymore, pur non originalissima armonicamente, ha una melodia vocale di buon spessore e un testo interessante; l'intro lenta, che poi ritorna come interludio, svia un po' l'ascoltatore dallo sviluppo successivo, ma non è certo un difetto, ed è senz'altro più riuscita che All for one del precedente disco Ghost of a rose. Brava Candice nella non facile ornamentazione della linea di canto. La seconda traccia davvero di gran valore è la cover di St. Teresa di Joan Osborne, molto aggressiva sull'ostinato ritmo in terzine, con un solo centrale di ottimo gusto e tiro e una voce anche in questo caso abilissima a eseguire il tutto a una velocità non indifferente.
Tra i momenti acustici, splendida la prima traccia, 25 years, perfetta introduzione per un disco di questo genere: l'oscuro e visionario testo è reso con ottima aderenza musicale, le sonorità sono lievi e quasi mistiche, per un brano che si candida ad essere un classico. Anche Fairie queen è di buon valore, se non fosse che ricorda davvero troppo da vicino Catherine Howard's fate da Under a violet moon, e nel mezzo del ritornello c'è una progressione che ricorda perfino What a feeling!!! Meno male che al termine Blackmore ci regala uno dei suoi classici e trascinanti finali strumentali su un vivace tempo di saltarello.
Il disco potrebbe praticamente finire qui: altri momenti degni di nota in realtà non ce ne sono, tolto forse l'organum per quinte affidato a un lontano coro maschile in World of stone, rielaborazione di un motivo popolare tedesco. Se The messenger, Once in a garden e Windmills potrebbero essere tranquillamente espunte senza che ci si accorga di nulla, tracce come Olde mill inn DOVREBBERO essere saltate ad ogni ascolto: un fastidiosissimo valzer che nulla ha a che spartire con l'uso in passato fatto da Blackmore del ritmo di danza... penso alla splendida Be mine tonight del primo disco. La chicca è però un quantomeno curioso medley tra un rifacimento molto discutibile e del tutto inutile di Mond Tanz, sempre da Shadow of the moon, e nientemeno che il classico profondo viola Child in time! Kitsch, molto kitsch, pure troppo... se mi passate l'espressione non proprio finissima, non c'entra una sega.
In definitiva, che dire? Le doti strumentali e la sensibilità musicale di Ritchie Blackmore non sono minimamente in discussione: non per niente è diventato un classico, meritatamente. Candice Night migliora di disco in disco: se in principio la sua voce era a tutti gli effetti un respiro dotato di intonazione (fin dai tempi dei cori in Ariel su Stranger in us all dei redivivi Rainbow nel '95), è andata via via maturando e anche le sue capacità di variazione timbrica si sono decisamente ampliate. L'impegno profuso dà i suoi frutti, che sono una delle cose migliori di questa lanterna: finalmente una voce con un po' di profondità e un fraseggio sentito e versatile (le sue svisate blueseggianti hanno il loro fascino...!). Può migliorare ulteriormente, speriamo che prosegua sul cammino tracciato. Niente da eccepire neppure sulla produzione: strumenti acustici così ben registrati raramente capita di sentirne; le elettriche sono ottime come sempre, la sezione ritmica non esaltante ma più che decente, l'equilibrio generale del mix ben studiato, i suoni sintetici per nulla invasivi ma non per questo meno ricercati.
Il problema, a mio avviso, sta nel fatto che non si capisce la direzione che la coppia al comando vuole intraprendere. Con quattro dischi e mezzo la corrente arcaicizzante (o modernizzante l'arcaico, a seconda dei punti di vista!) secondo me può dirsi esaurientemente rappresentata e non è il caso di insistere oltre laddove manchino le idee. Più auspicabile sarebbe un ritorno alle sonorità intermedie e al metodo di composizione di matrice più esplicitamente rock, che ha prodotto in questi anni risultati, se non da far gridare al miracolo, sicuramente interessanti, degni di merito e di una certa originalità, specialmente in virtù della formula adottata.
Blackmore ha dimostrato, checché ne dicano i detrattori, di essere un po' l'unico della vecchia squadra dei Deep Purple a sapersi reinventare una carriera senza sentirsi in dovere di fare le cose per forza. Si può dire che l'abbia fatto in virtù (... o in vizio??? ;) ) del suo carattere scontroso e del suo temperamento autonomista e vagamente dittatoriale; comunque, l'ha fatto. Togliersi di torno non appena capito che si stava scivolando verso una formula da "cover band di se stessi" (chi legge e mi conosce sa di cosa sto parlando, se n'è discusso più volte) è stata una scelta coraggiosa e che gli ha attirato non poche critiche una volta che si è capito quali erano le sue intenzioni; ma ritengo che sia stato molto più realista lui.
Detto questo, si rende necessario un nuovo ripensamento della cosa, altrimenti c'è il netto rischio di riproporre dei cliché sempre più vuoti e non più funzionali al messaggio che si vuol comunicare; e sinceramente non è bello sentirsi in qualche modo "vincolati" dalla propria ammirazione a comprare qualsiasi cosa con su scritto "Blackmore" solo per il buon nome del vecchio guitar hero. Non c'è che da sperare che l'età (61 anni!) gli abbia portato ulteriore saggezza e un'ancor miglior capacità di autocritica!
Ecco Blackmore... lo stile è sempre quello! E ormai i baffetti da sfregio sono d'ordinanza...

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