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Friday, December 08, 2006

La ragazza ardita

Ho riletto La chiave a stella di Primo Levi. Gran libro, e se già me n'ero accorto la prima volta che l'ho letto, beh, che dire, impressione confermata e rafforzata. La sensibilità dell'autore nel trovare la poesia autentica anche nelle situazioni più inconsuete e inaspettate (meccanica, chimica, ingegneria...) è qui presente al massimo grado. C'è per esempio il brano che vado a proporre: ogni volta che lo rileggo ho sempre, stranamente, "una specie di bruciacuore", come direbbe (e dice!) Faussone...

Nella dolce luce del tramonto avevamo preso la via del ritorno, lungo un sentiero appena segnato nel folto della foresta. Contro ogni sua abitudine, Faussone si era interrotto, e camminava silenzioso al mio fianco, con le mani dietro la schiena e gli occhi fissi al suolo. L'ho visto due o tre volte prendere fiato e aprire la bocca come se stesse per ricominciare a parlare, ma sembrava indeciso. Ha ripreso solo quando eravamo ormai in vista della foresteria.
"Vuole che gliene dica una? Per una volta, quel caposervizio aveva ragione. Aveva quasi ragione. Era vero che su quel lavoro c'erano delle difficoltà, che non si trovava il materiale, che il commendatore, sì, quello dei salami, invece di darmi una mano mi faceva perdere tempo. Era anche vero che non c'era uno dei manovali che valesse due soldi; ma se il lavoro veniva avanti malamente, e con tutti quei ritardi, la colpa era anche un po' mia. Anzi, era di una ragazza".
Lui, veramente, aveva detto "'na fija", ed infatti, in bocca sua, il termine "ragazza" avrebbe suonato come una forzatura, ma altrettanto forzato e manierato suonerebbe "figlia nella presente trascrizione. La notizia, comunque, aveva del sorprendente: in tutti gli altri suoi racconti Faussone aveva posto il suo vanto nel presentarsi come un refrattario, un uomo dagli scarsi interessi sentimentali, uno, appunto, "che non corre appresso alle figlie", ed a cui le figlie invece corrono dietro, ma lui non se ne cura, si prende questa o quella senza darle peso, se la tiene finché dura il canitere e poi le saluta e parte. Mi sono fatto attento e teso.
"Sa, sulle ragazze di quelle terre si raccontano un mucchio di storie, che sono piccole, grasse, gelose, e buone solo a fare dei figli. Quella ragazza che le dicevo era alta come me, coi capelli castani che erano quasi rossi, dritta come un fuso e ardita come ne ho viste poche. Portava il carrello a forche, anzi, è proprio così che ci siamo incontrati. Accosto al nastro che io stavo montando c'era la pista per i carrelli: ce ne passavano due giusti giusti. Vedo venire giù un carrello guidato da una ragazza, con un carico di profilati che sporgeva un poco, e in su venire un altro carrello vuoto, anche quello guidato da una ragazza: chiaro che incrociarsi non potevano, bisognava che uno dei due facesse marcia indietro fino a uno slargo, oppure che la ragazza dei profilati posasse il carico e lo sistemasse meglio. Niente: si piantano lì tutte e due e cominciano a dirsene di tutte le tinte. Io ho capito subito che fra di loro ci doveva essere della ruggine vecchia, e mi son messo lì con pazienza a aspettare che avessero finito: perché anch'io dovevo passare, avevo uno di quei carrellini che si guidano dal timone, carico dei famosi cuscinetti, che Dio liberi se avesse dato il giro e il mio caposervizio lo avesse saputo.
Basta, aspetto cinque minuti, poi dieci, niente, quelle continuavano come se fossero state in piazza. Litigavano nel loro dialetto, ma si capiva quasi tutto. A un certo punto io mi sono fatto sotto, e gli ho chiesto se per piacere mi facevano passare: quella più grande, che era poi la ragazza che le dicevo prima, si volta e mi fa tutta tranquilla: "Aspettate un momento, non abbiamo ancora finito"; poi si gira verso quell'altra , e così, a sangue freddo, gliene tira giù una che non oso ripetergliela, ma le giuro che mi ha fatto venire i capelli all'umberta. "Ecco", mi fa, "ora passate pure", e dicendo così se ne parte a marcia indietro a tutta velocità, facendo la barba alle colonne, e anche ai montanti del mio nastro, che io mi sentivo venire freddo. Arrivata che è stata al corridoio di testa, ha preso la curva che neanche Nichi Lauda, sempre a marcia indietro, e invece di guardarsi dietro mi guardava me. "Cristo", penso io tra di me, "questa è un diavolo scatenato": ma l'avevo già bell'e capito che tutto quel cine lo faceva per me, e poco tempo dopo ho anche capito che lo faceva apposta, a fare tanto la malgraziosa, perché era diversi giorni che mi stava lì a guardare mentre che io mettevo le mensole in bolla d'aria..."
L'espressione mi suonava strana, ed ho chiesto un chiarimento. Faussone, impermalito, mi ha spiegato in poche parole dense che la bolla d'aria è solo una livella, che appunto ha dentro un liquido con una bolla d'aria. Quando questa coincide con il contorno di riferimento, la livella è orizzontale, e lo è anche il piano su cui la livella appoggia.
"Noi diciamo soltanto per esempio 'metti quel supporto in bolla d'aria', e ci capiamo fra di noi; ma mi lasci andare avanti, perché la storia della ragazza è più importante. Insomma, lei aveva capito me, cioè che a me mi va la gente decisa e che sa fare il suo mestiere, e io avevo capito che lei, alla sua maniera, mi stava dietro e cercava di attaccare discorso. Poi l'abbiamo attaccato, il discorso, non c'è stata nessuna difficoltà, voglio dire che siamo andati a letto insieme, tutto regolare, niente di speciale; ma ecco, una cosa gliela volevo dire: che il momento più bello, quello che uno si dice 'questo non me lo dimentico mai più, finché vengo vecchio, finché tiro gli ultimi', e vorrebbe che il tempo si fermasse lì come quando un motore s'ingrippa: bene, non è stato quando siamo andati a letto, ma prima. È stato alla mensa della fabbrica del commendatore: ci eravamo seduti vicini, avevamo finito di mangiare, parlavamo del più e del meno, anzi, mi ricordo perfino che io le stavo raccontando del mio caposervizio e della sua maniera di aprire le porte, e ho tastato la panca alla mia destra, e c'era la sua mano, e io l'ho toccata con la mia, e la sua non se n'è andata e si lasciava carezzare come un gatto. Parola, tutto il resto che è venuto dopo è stato anche abbastanza bello, ma conta di meno".
"E adesso?"
"Ma insomma, lei vuole proprio sapere tutto", mi ha risposto Faussone, come se a chiedergli di raccontare la storia della carrellista fossi stato io. "Cosa vuole bene che le dica: è un tira e molla. Sposarla, non la sposo: primo per il mio mestiere, secondo perché... sì, insomma, prima di maritarsi uno bisogna che ci pensi sopra quattro volte, e prendersi una ragazza come quella, brava, poco da dire, ma furba come una strega, bene, non so se mi spiego. Ma neanche a metterci una pietra sopra e a non pensarci più non sono buono. Ogni tanto vado dal mio direttore e mi faccio mandare in trasferta in quel paese, con la scusa delle revisioni. Una volta è piombata qui a Torino, in ferie, con addosso i blugins tutti stinti sui ginocchi, in compagnia di un ragazzo di quelli con la barba fino negli occhi, e me l'ha presentato senza fare una piega: e neanch'io l'ho fatta, una piega; sentivo come una specie di bruciacuore, qui alla bocca dello stomaco, ma non le ho detto niente perché i patti erano quelli. Però lo sa che lei è un bel tipo a farmi contare queste storie, che fuorivia di lei non le avevo mai contate a nessuno?"

(Primo Levi, La chiave a stella, Torino, Einaudi, 1978)

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