Walk straight down the middle

My Photo
Name:
Location: Borgosesia, Vercelli, Italy

Saturday, October 27, 2007

Il diavolo nella bottiglia

Da un curioso libro del professore universitario torinese Maurizio Ferraris (Dove sei? Ontologia del telefonino, Milano, Bompiani, 2005) estrapolo l'intermezzo tra le sue due parti. La storia di Stevenson non mi era ancora nota, ma quello è il meno: è interessante la considerazione a margine sullo stato della filosofia. Non sono molto ferrato in materia, ma mi è sembrata meritevole. La riporto pertanto qui a seguire; nella mia edizione (Il Sole 24 Ore, 2007) si trova alle pp. 209-210.

Il diavolo nella bottiglia

Spegniamo il telefonino e leggiamo una storia. È di Robert Louis Stevenso, quello dell'Isola del tesoro, ma il racconto, angoscioso, è un altro, Il diavolo nella bottiglia. Narra le peripezie di una bottiglia magica, con dentro il diavolo, capace di dare ogni bene del mondo a chi ne fosse il proprietario, a condizione che costui gli vendesse l'anima. Rispetto a patti faustiani di questo genere, tuttavia, la bottiglia offriva una via d'uscita. Bastava che a un certo punto, ottenuti i risultati, il proprietario vendesse la bottiglia e il gioco era fatto: se la sarebbe dovuta vedere il nuovo acquirente. Tutto a posto? Fino a un certo punto. Perché la bottiglia andava rivenduta alla metà del prezzo di acquisto. All'inizio, era facilissimo. Ancora ai tempi di Napoleone, che grazie alla bottiglia aveva avuto tutto quello che ha avuto, tranne disfarsene forse troppo precipitosamente, la bottiglia valeva una fortuna. Ma, dai e dai, alla fine valeva soltanto, poniamo, un Euro.
A questo punto le chances di rivenderla si riducono a due: 50 cent, 25 cent e poi finisce lì, perché non ci sono monete da 0,50 cent. Chi compra la bottiglia è avvisato. L'unica possibilità di disfarsene è di trovare prima un tonto e poi un masochista votato alla perdizione eterna.
Qualcosa del genere è successo nella filosofia degli ultimi decenni. Diciamo che chi ha proclamato che "il mondo vero è diventato una favola", cioè che la verità vera ce l'ha solo la scienza, o che neanche la scienza è vera e bisogna darsi alla fantasia, si è comprato la bottiglia per un Euro. Applaudito e riverito in vita, negli ultimi giorni si è posto il problema del dopo, e a questo punto ha trovato qualcuno, il tonto, che gliel'ha comprata per 50 cent. Questi, sparandola ancora più grossa, ha sostenuto che la verità non esiste. Grande effetto e grande commozione, anche perché la verità può far male o risultare spiacevole. E dunque anche qui banchetti e plausi e convegni, sino al momento in cui, di nuovo, il negatore della verità si è posto il problema del salvarsi l'anima. Doveva, per sua disgrazia, trovare qualcuno che fosse del tutto masochista, perché anche un tonto sa che non c'è una moneta divisionaria per i 25 cent. Incredibile ma vero, lo trovò: era chi sosteneva che non ci sono fatti, solo interpretazioni.
Io non so poi come se l'è cavata l'ultimo, cioè se sia riuscito a convincere il diavolo del fatto che non ci sono fatti, ma solo interpretazioni, e che dunque il patto non sussisteva. Non lo so, davvero. Ma forse qualcosa possiamo imparare da tutta questa storia: non è vero che il mondo è a nostra disposizione, non è vero che è una semplice rappresentazione nella testa di soggetti. [...]


P. S.: ho cominciato a leggere Vedo Satana cadere come la folgore di Girard e sto documentandomi sull'autore. Seguiranno aggiornamenti.

Friday, October 26, 2007

L'avversario

Vorrei proporre ai miei carissimi lettori un brano dal libro L'avversario di Emmanuel Carrère (Torino, Editrice La Stampa, 2006; su licenza della Giulio Einaudi Editore), che in un paio di occasioni ho nominato su queste pagine. Il volume si occupa della figura di Jean-Claude Romand, il pluriomicida francese che il 9 gennaio 1993 sterminò la propria famiglia: la moglie, i due figli piccoli, gli anziani genitori. Il suo caso è particolarissimo poiché Romand per 18 anni ha falsificato la propria stessa esistenza, costruendo un'immagine fittizia da offrire al mondo. Completamente falsa: dice di essere un medico dell'Organizzazione Mondiale della Sanità ma non si è neppure laureato; asserisce di doversi assentare per lavori e conferenze ma non fa altro che perdere tempo negli hotel o per i boschi; vanta un reddito da alto dirigente ma la sua abilità è stata soltanto quella di circuire parenti e amici per farsi affidare i loro soldi "da investire" (diceva lui). Per 18 anni. Finché la vita non gli ha presentato il conto; e pur di non pagarlo ha preferito distruggere ogni appiglio con la realtà esterna (la propria famiglia) e tentare il suicidio, non riuscendovi (e alcuni sostengono che abbia addirittura fatto deliberatamente in modo di non morire nell'incendio appiccato alla propria abitazione). La pazzia di Romand porta dunque a interrogarsi sugli abissi in cui la bugia può far precipitare potenzialmente ogni uomo: un solo momento di debolezza - questo la storia di Romand sembra suggerire - può essere fatale, creando una catena di menzogne una dentro l'altra. E va da sé che le successive devono essere sempre più grosse. Se normalmente la psiche riesce a contenere tale spinta, in soggetti patologici essa può rivelarsi devastante.
Vi è anche un secondo aspetto, che è precisamente quello che ha ispirato Carrère nella scelta del titolo. "Avversario" è appellativo biblico per Satana, detentore della falsità per eccellenza e capace unicamente di azioni false: esattamente come Romand. Per il pluriomicida, esattamente come per il diavolo, la menzogna è l'atteggiamento normale di vita: da qui l'identificazione simbolica scelta dall'autore. Anche il suo ostentato pentimento, di cui si parla verso la fine del libro, rientra in una strategia veramente demoniaca: Romand, pensa Carrère, riesce ad essere convincente anche in questa sua ultima interpretazione, procurandosi le stime dei suoi assistenti spirituali. In realtà è solo una mimesi o, se si preferisce un termine più moderno e "procedurale", un depistaggio: insomma, l'anticristo che si traveste da "buono". Ma, come sappiamo, Satana è destinato a soccombere "come la folgore" (Lc 10,18: "Egli [Gesù] disse: 'Io vedevo Satana cadere come la folgore' "; c'è anche un libro di Renè Girard che parafrasa questo detto: non l'ho ancora letto, ma mi ci metterò). Così anche Romand è cosciente che la sua folgorazione è vicina: l'ultimo brano che ho riportato più sotto descrive esattamente questa scena.
Rimandandovi alla lettura del libro, ricordo che c'è anche un film (sempre dal titolo L'avversario, con Daniel Auteuil, regia di Nicole Garcia), fatto molto bene e molto rispettoso della storia, rispetto alla quale vengono omessi soltanto un paio di dettagli. Inoltre, vi è un sito in francese sul caso Romand, contenente i termini essenziali della vicenda e una buona rassegna stampa. Dal canto mio, non mi resta che riportare due-tre brani dal libro di Carrère. Scuserete la scelta di particolare drammaticità, ma tant'è: mi sembrano quelli che più nitidamente illustrano la mostruosità del personaggio. Sono passi molto toccanti, a mio parere; quindi, stateci attenti.

Stava per chiudersi il capitolo della sua infanzia, quando Abad, il suo avvocato, gli ha chiesto: "È vero che a quei tempi, se provava una gioia o un dolore, il suo unico confidente era il cane?". Romand ha aperto la bocca. Ci aspettavamo una risposta banale, pronunciata con quel tono ragionevole e insieme lamentoso a cui cominciavamo ad abituarci. Ma non è uscito alcun suono. Ha vacillato. Ha cominciato a tremare piano, poi forte, dalla testa ai piedi, mentre dalla bocca gli sfuggiva una specie di cantilena disarticolata. Persino la madre di Florence ha girato lo sguardo verso di lui. Allora si è gettato a terra emettendo un gemito da far gelare il sangue. L'abbiamo sentito sbattere la testa contro il pavimento, abbiamo visto le sue gambe sferzare l'aria sopra la gabbia. Gli agenti attorno a lui hanno fatto del loro meglio per dominare quel moto convulso, poi l'hanno portato via, il grande corpo ossuto ancora scosso da gemiti e sussulti.
Ho scritto "da far gelare il sangue". Ho capito quel giorno quanta verità ci sia sotto tante frasi fatte: dopo la sua uscita si è davvero abbattuto sulla sala "un silenzio di tomba", finché il presidente, con voce incerta, ha dichiarato l'udienza sospesa per un'ora. La gente ha cominciato a parlare, a cercar d'interpretare quell'episodio solo dopo essere uscita dall'aula. Alcuni vedevano in quella crisi finalmente un segno di emozione, dopo tutto il distacco ostentato fino a quel momento. Altri giudicavano mostruoso il fatto che fosse stato il ricordo di un cane a suscitare una simile reazione in un uomo che aveva ucciso i propri figli. Altri ancora si chiedevano se non stesse fingendo. Nonostante in teoria avessi smesso di fumare, ho scroccato una sigaretta a un vecchio vignettista con la barba bianca e la coda di cavallo. "Ha capito - mi ha chiesto - dove vuole andare a parare l'avvocato?". Io non ne avevo la più pallida idea. "Vuole farlo crollare. Si rende conto che manca il sentimento, che il pubblico lo trova freddo, per questo vuole mostrare il suo punto debole. Ma non si rende conto di quanto sia pericoloso. Dia retta a me, sono quarant'anni che bazzico per tutti i tribunali francesi con la mia cartella da disegno, ormai ci ho fatto l'occhio. Questo individuo è
gravemente malato, è stata una follia da parte degli psichiatri lasciargli affrontare il processo. Si controlla, controlla ogni cosa, è l'unico modo che ha per riuscire a reggere, ma se qualcuno si mette a punzecchiarlo dove non può più controllarsi, andrà in mille pezzi, così, davanti a tutti, e le assicuro che sarà uno spettacolo spaventoso. Credono di trovarsi davanti a un uomo, ma quello non è più un uomo, non lo è più da una vita. È come un buco nero, e vedrà che ci esploderà in faccia. La gente non sa cosa sia la pazzia. È terribile. È la cosa più terribile che ci sia al mondo" (pp. 35-37)

- Dopo aver ucciso Florence, sapevo che avrei ucciso anche Antoine e Caroline, quei minuti davanti alla televisione erano gli ultimi che avremmo passato insieme. Me li sono coccolati. Devo aver sussurrato parole dolci, come: "Vi voglio bene". Lo facevo spesso e spesso loro mi rispondevano con dei disegni. Persino Antoine che andava ancora all'asilo sapeva scrivere "Ti voglio bene".
Un lunghissimo silenzio. Con voce alterata, il presidente ha proposto una sospensione di cinque minuti, ma lui ha scosso la testa, ha deglutito e poi ha continuato:
- Saremo rimasti così più o meno mezz'ora... Caroline si è accorta che avevo freddo e si è offerta di salire a prendermi la vestaglia. Io ho detto che mi sembrava che fossero loro un po' caldi, forse avevano la febbre, era meglio misurarla. Caroline è salita con me, l'ho fatta stendere sul letto... Sono andato a prendere la carabina...
La scena del cane si è ripetuta. Ha iniziato a tremare, il suo corpo si è accasciato. Si è buttato per terra. Non lo vedevamo più, gli agenti erano chini su di lui. Con una voce acuta da bambino si è messo a gemere: "Il mio papà! Il mio papà!". Una donna del pubblico è corsa verso la gabbia e ha cominciato a battere il vetro supplicandolo come una madre: "Jean-Claude! Jean-Claude!". Nessuno ha avuto il coraggio di allontanarla.
- Che cosa ha detto a Caroline? - ha proseguito il presidente dopo mezz'ora di sospensione.
- Non me lo ricordo... Era stesa a pancia in giù... E io ho sparato.
- Coraggio...
- L'ho già raccontato diverse volte al giudice istruttore, ma adesso... adesso
loro sono qui (singhiozzi). Ho sparato un primo colpo contro Caroline... aveva un cuscino sulla testa... devo aver finto che fosse un gioco... (geme, a occhi chiusi). Ho sparato... ho posato la carabina da qualche parte in camera... ho chiamato Antoine... e ho sparato di nuovo.
- Forse sarà il caso che l'aiuti un po', perché i giurati hanno bisogno di particolari e lei non è abbastanza preciso.
- ... Quando è nata Caroline, è stato il giorno più bello della mia vita... Era bella... (gemito)... fra le mie braccia... per il primo bagnetto... (spasmo). E l'ho uccisa io... L'ho uccisa io...
(Gli agenti lo tengono per le braccia, con una sollecitudine sgomenta).
(pp. 112-113)

Mentre Romand al processo descriveva gli omicidi, lei non aveva smesso un momento di pensare alle ricostruzioni, avvenute nel dicembre del 1994. Una prova altrettanto terribile per lui, a cui aveva temuto che non sopravvivesse. A Prévessin, lui inizialmente si era rifiutato di scendere dalla camionetta della polizia. Alla fine era entrato in casa, salendo anche al primo piano. Quando stava per varcare la porta della sua camera, aveva pensato che sarebbe accaduto qualcosa di soprannaturale: forse sarebbe stato fulminato sul posto.
Non è riuscito a ripetere i gesti descritti nelle sue dichiarazioni. Un agente si è steso sul letto e un altro, armato di un mattarello, ha finto di colpirlo in diverse posizioni. Lui suggeriva e correggeva, quasi come un regista. Avevo visto le fotografie di quelle ricostruzioni, sinistre e al tempo stesso grottesche. Poi si sono spostati nella camera dei bambini. Lì, su quel che restava dei letti, avevano posato due piccoli manichini con indosso dei pigiami comprati per l'occasione, gli scontrini figurano nel fascicolo delle indagini. Il giudice ha voluto fargli imbracciare la carabina ma lui non ce l'ha fatta: è svenuto. Ha trascorso il resto della giornata seduto su una poltrona del pianterreno, mentre un poliziotto recitava la sua parte. Il primo piano era stato devastato dall'incendio, ma il salotto era esattamente come l'aveva trovato la domenica mattina tornando da Parigi. C'erano perfino i disegni dei bambini e le ciambelle dell'Epifania. Il giudice ha dato l'ordine di mettere sotto sigilli la cassetta inserita nel videoregistratore e quella della segreteria telefonica, che gli ha fatto ascoltare qualche giorno più tardi.
È stato allora che la folgore gli è caduta addosso. Il primo messaggio risaliva all'estate precedente. La voce di Florence, piena di allegria e tenerezza, diceva: "Ehilà, siamo noi, siamo arrivati, aspettiamo che tu ci raggiunga, sii prudente lungo la strada, ti vogliamo bene". E Antoine dietro di lei: "Bacioni, papà, ti voglio tanto bene, tanto, tanto, tanto, vieni presto". Il giudice che lo guardava ascoltare, ascoltando a sua volta, si è messo a piangere. E lui, da quel momento, non ha più smesso di sentire il messaggio. Continuava a ripetere quelle parole che gli dilaniavano il cuore e insieme lo consolavano. Sono arrivati. Mi aspettano. Mi vogliono bene. Devo essere prudente lungo la strada che mi porta da loro. (pp. 133-134)

Sunday, October 21, 2007

L'onere della prova alla rovescia

Con L'Unità è in edicola il terzo volume della raccolta dedicata a Marco Travaglio. Dopo il volume sull'origine delle ricchezze berlusconiane e l'interessante Montanelli e il Cavaliere, ecco ora Bananas. Un anno di cronache tragicomiche dallo stato semilibero di Berlusconia. Si tratta di una raccolta di commenti del nostro Travaglio sull'Unità tra 2002 e 2003. Ho appena cominciato a leggerlo e, ovviamente, mi ha subito "preso"; questo tenuto conto che, sulla scorta del parere di Chiaberge del Sole 24 Ore e come già credo di essermi espresso almeno a voce con qualcuno di voi, Travaglio è uno dei maghi della documentazione scritta, evidenziando invece forti carenze nella "prova orale". Tradotto: invece che presenziare a certi programmi e a fare affermazioni magari anche condivisibili ma altrettanto non documentate, meglio farebbe a tenere ben oliato il meccanismo svizzero del suo ormai leggendario archivio. Questo lo dico da (ex?) filologo.
Comunque vi riporto un bel corsivo di M. T. del 17/9/2002, anche più caustico del solito. Ma, direi, a buon diritto: è utile per capire dove e come siamo stati non troppo tempo fa e in quali abissi, ahimè, a intervalli regolari andiamo sempre a infilarci per poi cercare faticosamente di uscirne. Mi preme sottolineare, infine, che è anche un eccellente esempio di scrittura giornalistica; leggere per credere e per apprezzare le numerose finezze.


C'è del Castelli in Danimarca
(Polemiche sulla grande manifestazione del 14 settembre contro la legge Cirami. Proteste dei detenuti nelle carceri per sollecitare l'indulto)

Il cosiddetto ministro della Giustizia Roberto Castelli, tutto giulivo per la sua trovata sulla sinistra che fomenta i "moti di piazza" e la rivolta nelle carceri, insiste: "Sono cosciente - dice in tournée a Copenhaghen - della gravità delle mie affermazioni. Ma la sinistra dimostri che quanto ho detto non è vero". Già è sorprendente scoprire che Castelli è cosciente di qualcosa. E fa tenerezza sentir parlare nel 2002 di "moti di piazza", espressione che non si ascoltava dai tempi di Bava Beccaris. Ora manca soltanto la "radunata sediziosa". Ma la vera notizia è un'altra: il noto giureconsulto padano ha scelto la Danimarca per lanciare la Nuova Frontiera del garantismo all'italiana: l'onere della prova alla rovescia. Uno scarica sull'avversario la prima accusa che gli passa per la testa. E se l'altro non porta le prove della propria innocenza entro cinque minuti, allora vuol dire che è stato lui. Con tutti gli amici e i clienti che hanno in carcere quelli del Polo, è perlomeno singolare che l'ingegner Castelli attribuisca le rivolte ad altri. Ma lui è un garantista doc, e se i detenuti non gradiscono i "grand hotel" nei quali sono generosamente ospitati, dev'esserci lo zampino di Pietro Folena o di Paolo Cento. La scuola è quella dell'avvocato Taormina, che addita i vicini di casa per il delitto di Cogne, poi avverte che gli mancano ancora le prove, ma non importa: prima o poi salteranno fuori. Intanto questi signori valdostani spieghino perché hanno scelto di abitare proprio lì.
Ora alcuni esponenti dell'Ulivo chiedono, come per Taormina, la testa di Castelli. Il problema è trovarla.

Friday, October 12, 2007

Tomorrow in the battle think of me

[...] Il malessere di Marta mi stava facendo pensare cose sinistre, e sebbene respirassi e mi sentissi meglio sulla porta della stanza del bambino, a guardare gli aerei nel buio e a ricordare vagamente il mio passato remoto, pensai che ormai sarei dovuto tornare di là da lei, per vedere come stava o per cercare di aiutarla, forse spogliarla del tutto ma soltanto per metterla a letto e coprirla e assecondare il sonno che con un po' di fortuna poteva averla sopraffatta durante la mia breve assenza, e poi me ne sarei andato.
Ma non è stato così. Quando sono entrato di nuovo ha sollevato lo sguardo e con gli occhi socchiusi e appannati mi ha guardato dalla sua posizione contratta e immobile, l'unico cambiamento consisteva nel fatto che adesso copriva la sua nudità con le braccia come se sentisse vergogna o freddo. "Vuoi infilarti nel letto? Così prenderai freddo", le ho detto. "No, non muovermi, per favore, non muovermi di un millimetro", ha detto, e poi ha aggiunto subito dopo: "Dov'eri?" "Sono andato in bagno. Non ti passa, bisogna fare qualcosa, chiamo un'ambulanza". Ma lei non voleva essere spostata né disturbata né distolta ("No, non fare ancora niente, non fare niente, aspetta") né di sicuro voleva rumori e movimenti accanto a sé, come se provasse tanto timore da preferire la paralisi assoluta di tutte le cose e rimanere almeno nello stato e nella posizione che le permettessero di continuare a vivere anziché osare una variazione, sia pure minima, che avrebbe potuto compromettere la sua momentanea stabilità del tutto precaria - la sua calma ormai temibile - e che le procurava il panico. Questo è ciò che fa il panico ed è ciò che di solito porta alla perdizione quanti lo subiscono: fa credere loro che, immersi nel male o nel pericolo, siano tuttavia in salvo. Il soldato che resta in trincea quasi senza respirare e immobile pur sapendo che tra poco sarà presa d'assalto; il passante che non vuole mettersi a correre quando si accorge che dei passi lo seguono nella notte a tarda ora in una strada isolata; la puttana che non chiede aiuto dopo essere salita su una macchina le cui sicure si chiudono automaticamente e dopo essersi resa conto che non sarebbe mai dovuta andare con quell'individuo dalle mani così grandi (forse non chiede aiuto perché non si sente del tutto in diritto di farlo); lo straniero che vede abbattersi sulla propria testa l'albero che è stato colpito dal fulmine e non si scosta, ma lo guarda cadere lentamente sul grande viale; l'uomo che vede un altro uomo procedere in direzione del suo tavolino con un coltello in mano e non si muove né si difende, perché crede che tutto ciò non gli stia capitando davvero e che quel coltello non si conficcherà nel suo ventre, il coltello non può avere le sue viscere come destinazione; o il pilota che vede il caccia nemico riuscire a collocarsi dietro di sé e non fa l'ultimo tentativo per uscire dal suo mirino con una acrobazia, nella certezza che anche se avesse tutti i vantaggi, l'altro mancherebbe il bersaglio perché stavolta è lui il bersaglio. "Domani nella battaglia pensa a me, e cada la tua spada senza filo". Marta doveva sentirsi dipendere da ogni secondo, magari li contava mentalmente uno per uno, dipendere dalla continuità che è quella da cui riceviamo non soltanto la vita ma anche la sensazione della vita, quella che ci fa pensare e dire a noi stessi: "Ancora penso, o ancora parlo, ancora leggo o ancora guardo un film e perciò sono vivo; scorro la pagina della rivista o bevo un altro sorso della mia birra o completo un'altra parola del mio cruciverba, ancora osservo e distinguo cose - un giapponese, una hostess - e questo vuol dire che l'aereo su cui viaggio non è caduto, fumo una sigaretta ed è la stessa di qualche secondo prima e credo che riuscirò a finirla e ad accenderne un'altra, cosicché tutto continua e non posso neppure fare niente contro tutto questo, dal momento che non sono disposto a uccidermi né voglio farlo né mi accingo a farlo; quest'uomo dalle mani così grandi mi accarezza il collo e non stringe ancora: sebbene mi accarezzi con una certa forza e mi faccia un po' male, continuo a sentire le sue dita pesanti e dure sui miei zigomi e sulle mie tempie, le mie povere tempie - le sue dita sono come tasti -; e sento ancora i passi di quella persona che vuole derubarmi nel buio, o forse sbaglio e sono i passi di qualcuno inoffensivo che non riesce a camminare più svelto e a superarmi, forse dovrei dargliene l'occasione tirando fuori gli occhiali e fermandomi a guardare una vetrina, ma può darsi che allora smetterei di sentirli, e quello che mi salva è continuare a sentirli; e sono ancora qui nella mia trincea con la baionetta in canna di cui presto dovrò fare uso se non voglio vedermi trafitto da quella del mio nemico: ma ancora no, ancora no, e finché sarà ancora no la trincea mi nasconde e mi protegge, anche se siamo in campo aperto e sento il freddo sulle orecchie che l'elmetto non arriva a coprire; e il coltello che si avvicina impugnato da quella mano non è ancora arrivato alla sua destinazione e io rimango seduto al mio tavolo e nulla si lacera, e contrariamente a quel che sembra berrò ancora un altro sorso, e un altro, e un altro, della mia birra; poiché ancora non è caduto quell'albero, e non cadrà neppure se è stato spezzato e si rovescia, non su di me, né i suoi rami falceranno via la mia testa, non è possibile perché io sono in questa città e in questo viale soltanto di passaggio, e sarebbe altrettanto facile che io non vi fossi; e ancora continuo a vedere il mondo dall'alto, dal mio Spitfire supermariner, e non provo ancora la sensazione di discesa e di fardello e di vertigine, di caduta e di gravità e di peso che proverò quando il Messerschmitt che mi si è messo alla coda e mi tiene sotto tiro aprirà il fuoco e mi colpirà: ma ancora no, ancora no, e finché sarà ancora no posso continuare a pensare alla battaglia e a guardare il paesaggio, e a fare progetti per il futuro; e io, povera Marta, sento ancora la luce della televisione che è rimasta accesa e il calore di quest'uomo che continua a stare al mio fianco e mi fa compagnia. E fino a quando rimarrà al mio fianco non potrò morire: che resti qui e non faccia niente, non mi parli e non chiami nessuno e non modifichi niente, mi dia un po' di calore e mi abbracci, ho bisogno di stare calma per non morire, se ogni istante è identico al precedente non avrebbe senso che io cambiassi, che le luci rimanessero accese qui e in strada, e la televisione continuasse a trasmettere, mentre io muoio, un vecchio film di Fred MacMurray". [...]
Ho obbedito, ho aspettato, non ho fatto niente e non ho chiamato nessuno, sono soltanto tornato al mio posto nel letto, che non era il mio ma quella notte continuava a esserlo, mi sono messo di nuovo accanto a lei e allora lei mi ha detto senza girarsi e senza vedermi: "Tienimi, tienimi, per favore, tienimi", e voleva dire che la abbracciassi e così ho fatto, l'ho abbracciata dalla schiena, la mia camicia ancora aperta e il mio petto entrarono in contatto con la sua pelle liscia che era calda, le mie braccia passarono sopra le sue, con le quali si copriva, su di lei quattro mani e quattro braccia adesso e un doloroso abbraccio, e di certo non bastava, mentre il film alla televisione andava avanti senza audio in silenzio e senza che noi ci badassimo, ho pensato che un giorno o l'altro avrei dovuto vederlo prestandoci attenzione, in bianco e nero. Me lo aveva chiesto per favore, il nostro vocabolario è radicato a fondo, non ci si dimentica mai come si è stati educati né si rinuncia alla propria dizione e al proprio modo di parlare in nessun momento, neppure nella disperazione o nella collera, accada quel che accada, e anche se si è sul punto di morte. Sono rimasto per un po' così, disteso sul letto e abbracciato a lei come non avevo programmato e allo stesso tempo come era previsto, come c'era da aspettarsi da quando ero entrato in quella casa e anche prima, da quando avevamo fissato l'appuntamento e lei aveva chiesto o proposto che non fosse per strada. Ma questo era un'altra cosa, un altro tipo di abbraccio non annunciato da nessun presentimento, e allora ho avuto la sicurezza di ciò che fino a quel momento non mi ero permesso di pensare, o di sapere che pensavo: ho saputo che quella cosa non era passeggera e ho pensato che poteva essere conclusiva, ho saputo che non era dovuta al pentimento né alla depressione né alla paura e che era imminente: ho pensato che stava morendo tra le mie braccia; l'ho pensato e all'improvviso mi è venuta meno ogni speranza di poter uscire da lì, come se lei mi avesse contagiato la sua ansia di immobilità e di quiete, o forse era già un'ansia di morte, ancora no, ancora no, ma ormai non posso più, non posso più.

(Javier Marías, Domani nella battaglia pensa a me, Torino, Einaudi, 1998 [trad. di Glauco Felici], pp. 23-29)

Thursday, October 11, 2007

Images and (or?) words

Il bookcrossing vercellese di una quindicina di giorni fa ha consegnato al sottoscritto, tra l'altro, Sempre meglio che lavorare di Luca Goldoni. Devo già aver citato qualche volta l'ormai storico giornalista-opinionista-polemista; nel suddetto libro, contenente ricordi di corrispondenze dall'estero da lui svolte, vi sono anche riflessioni di curioso interesse, sempre velate dal consueto filo di ironia. Oggi vi propongo questa, sul valore del testo e delle fotografie.

Avevo vent'anni, facevo il cronista a Parma, mi affidarono un servizio su Miss Italia. La figura del giornalista, allora, esercitava un certo fascino, specialmente sulle ragazze. C'era una concorrente che mi piaceva e cercai di intortarla con frasi d'effetto, da uomo che non deve chiedere mai. Verso sera credetti di averla in pugno, ma dopo cena sparì. Il mio collega fotografo, senza tante perifrasi, se l'era portata in camera con la proposta di alcune pose artistiche.
Nonostante quell'incontestabile trionfo del clic sulla parola, non passai alla Rolleiflex, né in occasioni mondane, né professionali. Ai filtri dell'obiettivo mi ostinai a preferire quelli delle mie reazioni di fronte a qualcuno o qualcosa.
Però continuai spesso a invidiare i fotoreporter, per esempio quelli che incontravo nei servizi di guerra. Affrontavamo gli stessi rischi, provavamo le stesse emozioni. Ma loro le consumavano sul posto: inquadravano, scattavano e quando tornavano in albergo avevano già finito. L'abilità con cui avevano saputo cogliere volti o situazioni era già racchiusa nei rullini: dovevano solo pensare a spedirli.
Per me, invece, il lavoro cominciava allora, e cominciava la sofferenza. Avevo un taccuino scarabocchiato da decifrare, avevo sensazioni da ricostruire a freddo, immagini e stati d'animo da tradurre in parole. Scrivevo, accartocciavo il foglio, ricominciavo. Spesso mi disperavo (perché questa sensazione è così precisa dentro di me e non riesco a metterla a fuoco in una frase?). E intanto i miei colleghi fotografi erano già a cena, allegri, eccitati, appagati dalle centinaia di clic con cui avevano narrato una storia.
In fondo, mi dicevo, basta un clic per consegnare i grandi avvenimenti all'eternità: per esempio la guerra di Spagna è racchiusa nella celeberrima foto di Robert Capa sulla morte del miliziano e la guerra nel Pacifico ha un altro marchio inconfondibile: l'inquadratura dei marines che piantano la bandiera su Iwo Jima.
Altre volte però mi sentivo privilegiato nei confronti dei miei colleghi fotoreporter. Era accaduto qualcosa di importante e non l'avevamo saputo. Io potevo mendicare qualche informazione da un collega caritatevole e rimediare un articolo di fortuna. Loro no: non si può inventare una foto che non si è scattata. Una volta, rientrando dall'Unione Sovietica, i militi di frontiera sequestrarono tutti i rullini del mio collega. A me non potevano sequestrare la memoria.
E poi c'era l'incidente tecnico, sempre in agguato nel lavoro del fotoreporter: lo stesso Capa, sbarcando in Normandia con la prima ondata, rischiò di lasciarci la vita per nulla. Aveva due Contax, scattò centosei fotografie e uscì vivo dall'inferno. Ma quando spedì in laboratorio i rullini, gli distrussero i negativi per eccesso di essiccazione. Si salvarono miracolosamente solo otto fotogrammi. E sono queste otto istantanee che oggi rappresentano l'iconografia storica del Giorno più lungo.
La suggestione, la sintesi immediata dei grandi avvenimenti dunque è racchiusa più in un'immagine che in migliaia di parole. E tuttavia, se vogliamo approfondire l'emozione di questi celebri flash, dobbiamo ripiegare sulle cronache. Voglio dire che, senza le straordinarie pagine di Cornelius Ryan sul D-Day, le otto storiche foto di Capa sarebbero sospese nel vuoto.
D'altronde ci sono immagini scritte, più incise di fotografie: ne ricordo una, contenuta nella
Ritirata di Russia di Egisto Corradi: "Quei cavalli e quei muli che, colpiti dalle cannonate anticarro, venivano sollevati un poco da terra e si squarciavano come giganteschi papaveri rossi".
Si può scrivere per fotogrammi e si possono scattare foto che racchiudono centinaia di parole. L'importante è saperlo fare. Ciò che rifiuto è la tesi secondo la quale un reportage fotografico "testimonia" più inequivocabilmente di un reportage scritto. Esistono falsi clamorosi che sono emersi anche dalla bacinella della camera oscura: la già citata foto dei marines a Iwo Jima, per esempio, non consacra l'attimo della vittoria. Fu una "posa" studiata e ristudiata, dopo la battaglia, dall'inviato dell'Associated Press, Joe Rosenthal.
La verità si può dire o si può mistificare con le parole e con le immagini. Stare a discutere se siano meglio le une o le altre è una perdita di tempo. Una sola illusione mi sono tolto quasi subito: che il giornalista possa essere contestualmente fotografo e viceversa.
Per qualche anno ci ho provato e mi trovavo sempre dinanzi a bivi angosciosi: vado dove devo vedere, o vado dove devo ascoltare? Ho rischiato l'alienazione, finché non ho definitivamente rinunciato alla Rollei. E m'è rimasta un'ombra di quella nevrosi, al punto che scatto malvolentieri, anche se c'è da fare una foto ricordo in piazza San Marco.

(Luca Goldoni, Sempre meglio che lavorare, Milano, RCS Rizzoli Libri, 1989, pp. 71-73)

Thursday, October 04, 2007

Cercasi titolo...

Questa foto (scattata ieri pomeriggio da dietro il finestrino del pullman che mi portava a Varallo, fermo per caricare una persona) sarà pure 'na mezza cazzata, però... Insomma, ho visto e avendo dietro la fotocamera digitale non ho perso l'occasione.
Però mi manca il titolo. È come se ce l'avessi in testa ma non riuscissi a formularlo. Mi date una mano?
Relativamente alla foto: se eccettuiamo la mia ormai comprovata inabilità a scattare, l'unico rammarico è di non aver avuto tempo di zoomare maggiormente sul "protagonista" dell'immagine: il televisore al centro. Il vantaggio – se così si può dire – è che il contesto generale è più chiaro. Però già che ci sono vi chiedo, data la premessa che ho testé fatto: meglio così oppure, dato che la risoluzione lo permette, meglio ritagliare ed evidenziare l'oggetto, che qui è davvero in piccolo? Ho l'impressione che la risposta sarà determinata dai titoli che cortesemente mi suggerirete. Nel caso, faccio un secondo post (oppure édito questo).
Vabbeh, ho rotto le palle con la discussione preliminare. Ecco la foto.

Tuesday, October 02, 2007

LeggermentA

Cartello trovato nei cessi pubblici di Gattinara (dietro villa Paolotti):

Grande Asl 11...