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Wednesday, June 21, 2006

Sì o no? :D :D :D

Dunque, come ormai tutti saprete (le voci girano...) l'instancabile dispensatore di proclami, maledizioni e giudizi massimali Silvio Berlusconi ha affermato che, a suo modo di vedere, un italiano per sentirsi degno di esserlo deve andare a votare "sì" al referendum di domenica e lunedì. Uh, allora mi sa che sono un po' indegno pure io... Vabbè, sopravviverò, già sono coglione, non soffrirò certo per questo ulteriore titolo; anzi, esso mi darà la possibilità di accostarmi nientemeno che al mitico Dino Zoff quand'era allenatore della nazionale italiana, a sua volta accusato in conferenza stampa di aver condotto indegnamente la direzione della squadra in non ricordo quale occasione.
Ma il fatto divertente è che l'ANSA ha fatto una discreta gaffe, scrivendo un articolo in cui riporta esattamente il Silvio-pensiero referendario, ma titolando l'articolo: "Berlusconi: indegno chi vota ".
Lapsus di qualcuno? Scherzetto volontario? Boh. Siccome però ho idea che la cosa verrà rettificata al più presto, almeno uno snapshot l'ho fatto e ve lo posto. Da conservare!

Tuesday, June 20, 2006

Home & New York Suite

Ebbene sì, cari amici (uh... che bell'esordio da Superstoria last revision... :o ), nuovo disco per i Magenta, gruppo pressoché misconosciuto in Italia ma con una discreta fama, seppur sempre tra un pubblico di estimatori del genere, in Gran Bretagna. Dopo il doppio album d'esordio (... tanto per cominciare con qualcosa di semplice!) Revolution, interessante ma forse eccessivamente carico di materiale sfruttato non sempre a dovere, e il bellissimo Seven, concept sui sette peccati capitali (idea presa a prestito da un noto film ma elaborata in maniera completamente diversa), ecco Home, che esce in due edizioni, una semplice e una con accluso l'EP (... si fa per dire! Sono pur sempre altri quaranta minuti di gran musica) New York Suite, ideale complemento al disco principale. Trattasi di un concept basato sulla storia di un viaggio alla ricerca di un posto da chiamare "casa" da parte di una ragazza che, negli anni '70, parte dall'Inghilterra verso gli Stati Uniti. Ma sul sito trovate tutto lo spiegone, per la precisione qui, e perciò non scrivo cose ridondanti giusto per riempire righe su righe! C'è anche la copertina dell'album, malinconicamente evocativa.
Che dire... il processo di evoluzione del gruppo procede molto bene, con passi giustamente cadenzati. Volutamente (si legga il primo intervento di Rob Reed sulla pagina che ho linkato) il mood è generalmente più tranquillo rispetto ai lavori precedenti. Dichiarazione d'intenti perfettamente rispettata, e già qui tanto di cappello: il controllo sull'atmosfera del disco è cosa sempre difficile e qui esso si rivela pressoché perfetto. L'unico "difetto" non è in realtà tale: al primo ascolto, non è per niente semplice trovarsi a proprio agio... ci si comincia a capire qualcosa dopo qualche più attenta disamina delle tracce, e si comincia a notare che il valore musicale c'è, eccome!
Inizio soft e pensieroso: semplicissimo duetto tra il pianoforte di Reed e l'ulteriormente migliorata voce (e può ancora migliorare!) di Christina, luci basse e un po' di sconcerto in sala per un avvio non così consueto; ma la vera e propria ouverture non si fa attendere, e secondo uno schema non così usuale ma già brillantemente adoperato dai Dream Theater con Metropolis pt. 2, a un primo movimento meditativo e calmo segue la vera e propria introduzione. Hurt ha la netta bipartizione tipica di molti brani dei Magenta: su un bel ritmo sostenuto e staccato si sviluppa la prima parte, poi cesura netta e... spuntano i Pink Floyd! Super citazione, non certo nascosta, di Breathe: stessa progressione armonica, ritmo quasi uguale e perfino una slide guitar; gradevole, anche se il gioco è davvero troppo scoperto! Il tutto per introdurre uno dei temi musicali ricorrenti qua e là durante il disco.
E le citazioni floydiane non finiscono qui: The visionary è uno dei brani più belli del disco, e la chitarra ricalca la mitica ritmica della sezione centrale di Dogs, da Animals ("And when you lose control..."). Questa volta struttura unitaria e un forte accento sul pathos per un momento centrale dell'album. Ottimo Chris Fry alla chitarra, del resto fondamentale per il sound del gruppo. La signorina Booth è superlativa: voce da brivido, letteralmente, avvolgente ed espressiva, fraseggio e intonazione perfetti e nel finale anche un salto d'ottava à la Kate Bush al culmine del climax. Insomma: averne di brani così...
Joe, probabile chiave di volta del concept, è lunga ed elaborata, con ottimi cori sovraincisi da Christina nella prima parte, una seconda sezione di scambi strumentali su una classica progressione ascendente di accordi maggiori, stacco secco e breve momento semiacustico, un moto perpetuo di arpeggi di pianoforte e un crescendo molto ben graduato e, giustamente, non portato all'esasperazione; dopo un bel solo di chitarra, ultima sezione di allentamento della tensione e fade in verso The dream, breve interludio verso l'ultima parte del disco. E come non rilevare, nell'ascoltare lo stacco tra The dream e The visionary, la raffinata reminiscenza di Fly on a windshield (Genesis, The lamb lies down... ma che ve lo scrivo a fare!). Anche in questo caso, tributo niente affatto formale o forzato, bensì di notevole ricercatezza e raffinatezza.
Tributo agli Yes, come del resto esplicitato da Rob, nell'intro della complessa The journey, comprendente anche una bella sezione contrappuntata di ascendenza Jethro-Tulliana (personalmente, mi ha fatto tornare in mente l'interludio di Songs from the wood...)! Atmosfere più da classic ballad per Towers of hope, il cui tema ritorna poi nella finale Home, che funziona da "rimanenti strofe" con il valore aggiunto delle notevoli orchestrazioni: ottima idea per una perfetta outro, con una coda strumentale di solo piano in sintonia con This life e l'accordo del quarto grado a simboleggiare una molto ipotezzabile lettura circolare del lavoro.
E in tutto questo il prog dove sta, ci si può chiedere? Seppure "melodico", sempre prog esso si dichiara! E va bene: niente unisoni da brivido chitarra-tastiera, niente time signatures illeggibili, niente virtuosismi gratuiti, ed anzi una cantante che fa di tutto per salvaguardare la sua ottima voce e si auto-limita, senza peraltro alcun detrimento per la musicalità del tutto. Ma: armonie ricercate ben distribuite e sempre a servizio del pezzo, rifiuto della forma-canzone strofa-refrain-strofra-refrain-bridge-refrain-refrain-eccheppalle!!! a favore di una libertà pressoché assoluta di disposizione delle sezioni, suoni anti-commerciali e con un piede nel passato glorioso del prog anni '70 (Genesis in testa) e l'altro nella pulizia e definizione sonora delle nuove tecnologie, un concept che funge da linea guida efficace di più di un'ora e mezza di musica. E TUTTAVIA, se a qualcuno ciò non bastasse e, preferendo le più ortodosse (si fa per dire) progmelodie di Seven, di corsa sul secondo disco: la New York Suite, che Reed suggerisce di leggere come interpolata tra Towers of hope e Morning sunlight (frapponendovi Demons... ehllamadonna, che cumplicassiùn!), sicuramente soddisferà le aspettative dei palati più esigenti. Home from home ha un riffetto iniziale che farà la felicità dei cultori dell'ortodossia progrocchettara, nonché synth pseudo-Moog. Stesso discorso per White lies: intro con ostinato di chitarra con delay secco e corto e mutazioni armoniche, altri Moog qua e là, sezione semiacustica... chi più ne ha più ne metta. In Truth l'ultima citazione di Waters, Gilmour & C., e si rafforza l'impressione che le fonti individuate siano proprio quelle sopra indicate: le due chitarre che portano verso l'ultima sezione cantata sembrano outtakes della già citata Dogs. Difficile che sia un caso...!
Un discorso a parte merita la produzione, sempre migliore man mano che si va avanti, dei dischi dei Magenta: Rob Reed, da questo punto di vista, è veramente in gamba. Per quanto riguarda le sue tastiere, suoni così gradevoli e, soprattutto, perfettamente adatti ai vari momenti dei diversi brani, raramente mi è capitato di sentirne. Pianoforti delicati, timbrici e con una buona dinamica; piani elettrici di ottima fattura e alquanto ricercati (inizio di Journey's end su tutti), con talora un chorus a ping pong che fa girare la testa se ascoltato in cuffia (The journey). Organi SPETTACOLARI, tutti! Più standard le string sections, comunque sempre molto naturali. Synth mai aggressivi ma sempre con un ottimo corpo e ben presenti: bellissimo ad esempio quello all'inizio di The visionary, perfettamente amalgamato con le parti di chitarra, o quello più tirato sugli acuti, e ciò nonostante per nulla tagliente, nell'interludio di Joe.
Nulla da eccepire sulle chitarre: molto "Genesis revisited" (!), unitamente alla capacità espressiva del solista Chris Fry e alla precisione ritmica e pulizia d'esecuzione di Martin Rosser, fanno da sole un punto di forza rimarchevole del disco. Anche il basso comincia a farsi sentire con la giusta presenza, ma senza mai invadere eccessivamente o sbilanciare l'equilibrio complessivo; forse anche merito del nuovo bassista, Daniel Fry, fratello di Chris.
Cosa non va? Come in Seven, i testi non sono all'altezza del resto: i Magenta meritano di più. Secondariamente, un batterista tecnicamente migliore aggiungerebbe valore a una sezione ritmica a volte davvero troppo scarna; per dare a Cesare quel che è di Cesare, dobbiamo però riconoscere ad Allan Mason-Jones una capacità metronomica davvero invidiabile: avendo visto il DVD The gathering, possiamo garantire che non perde un colpo in tutto il concerto! Studiare qualche chop in più no, eh? Vabbè. Ma in fondo, magari neppure serve.
Da ultimo, segnalo la recensione di ProgressiveWorld, con la quale mi trovo molto d'accordo. E, in linea con quanto detto dall'estensore dell'articolo, non posso che esortare i Magenta affinche non si siedano sugli allori: di lavoro ce n'è ancora da fare, e la direzione sembra buona!

Friday, June 16, 2006

Arresti reali

Nota Adnkronos.

AHAHAHAUHAHAHAHUAHAHAHAUAHHHAHAH!!!!!!!
Se si prova che è vero, non c'è proprio limite al ridicolo per le ex-teste coronate italiane (cosa che per altro si poteva sospettare da tempo...)!

Thursday, June 15, 2006

Una lettera di Freud

Trascrivo oggi una curiosa e indicativa lettera di Sigmund Freud, autore conosciuto anche al grande pubblico e giustamente famoso per la sua rivoluzionaria teoria psicoanalitica e, si può dire, per l'effettiva e sistematica scoperta della psiche umana. Oltre che come medico e scienziato, data la portata interdisciplinare delle sue scoperte è considerato uno dei principali filosofi novecenteschi (per quanto lui certo non ambisse a tale titolo!). I suoi scritti, oltre che essere di capitale importanza tecnica e medica, posseggono uno stile alquanto personale, accattivante e anche piuttosto simpatico! Il genio, probabilmente, si riconosce anche da questi tratti.
Del tutto privo di falsa modestia, sapeva riconoscere le proprie qualità e non nascondeva di esserne contento e orgoglioso, ma era anche perfettamente consapevole dei propri limiti, seppure a detta di molti esagerando la sottostima intellettiva di sé. Ma forse lui si sentiva così, e quando ciò accade - credo di non dire un'eresia - non è che ci si possa fare molto. Era un realista e la vedeva in questo modo. Riteneva di possedere capacità intellettuali di modesta entità, specialmente in certi campi del sapere. Ma più sintomatica di tutte le spiegazioni date da terzi è la lettera cui accennavo prima, in cui Freud risponde all'amico neurologo statunitense James Jackson Putnam, a proposito del libro Motivi umani, èdito da Putnam nel 1915. La missiva contiene spunti di riflessione di notevole interesse: Freud, fuori dall'ambito strettamente scientifico, lascia intendere sinteticamente i suoi personali punti di vista su questioni di una certa delicatezza. Parla di un "(anti-)timor di Dio" decisamente fuori dagli schemi (!), di "presunto libero arbitrio", di libertà della morale sessuale, dell'etica pubblica e dell'aspirazione etica del singolo, con notevole autonomia di pensiero, serenità, moderazione, autoironia e, se si pensa alla data della lettera anche, con forte lungimiranza.

"[...] A pagina 20 ho trovato un passo che mi sembra quanto mai adatto a me stesso: «Abituarsi a conoscere l'immaturità e l'infanzia prima di procedere allo studio della maturità e della virilità significa spesso abituarsi a una inopportuna limitazione della nostra visuale riguardo allo scopo dell'impresa che affrontiamo».
Riconosco che questo è proprio il mio caso. Non sono all'altezza di giudicare l'altro lato della cosa, ma ho dovuto ricorrere a questa unilateralità per riuscire a vedere ciò che era nascosto e che gli altri sapevano bene come evitare. Questa è la giustificazione per la mia reazione di difesa. Dopo tutto l'unilateralità è servita pure a qualcosa.
D'altra parte il fatto che gli argomenti in favore della realtà dei nostri ideali non abbiano lasciato su di me grande impressione non vuol dire gran che. Non riesco a vedere nessuna continuità tra il fatto che le nostre idee di perfezione abbiano una realtà psichica e la fede nella loro esistenza obiettiva. Lei sa naturalmente quanto poco ci si debba aspettare dalle argomentazioni. Aggiungerei che non ho nessuna paura dell'Onnipotente: se mai dovessimo incontrarci avrei più rimproveri da muovere io a Lui che Egli a me. Gli chiederei perché non mi ha dato migliori prerogative intellettuali, mentre Egli non potrebbe rimproverarmi di non aver fatto il migliore uso possibile del mio presunto libero arbitrio. (Tra parentesi, so che ciascuno di noi rappresenta un frammento di energia vitale, ma non vedo cosa c'entri l'energia con il libero arbitrio, cioè con l'assenza di fattori condizionanti).
Devo dirLe infatti che non sono mai stato soddisfatto delle mie doti e che so esattamente sotto quali aspetti esse sono deficienti, ma che mi considero una persona moralissima, disposta a far sua l'eccellente massima di Th. Vischer: «Ciò che è morale non ha bisogno di dimostrazioni». Quanto a senso di giustizia, a considerazione del prossimo, a desiderio di non far soffrire gli altri e di non approfittare di loro, ritengo di potermi paragonare alle migliori persone che ho conosciuto. Non ho mai fatto nulla di basso o di malvagio e non potendo neanche confessare di averne avuto la tentazione, non ne vado affatto orgoglioso. Sto considerando l'idea di moralità, di cui stiamo parlando, nel suo significato sociale, non in quello sessuale. La morale sessuale così come la definisce la società in generale e quella americana in particolare mi sembra spregevolissima. Io sono per una vita sessuale incomparabilmente più libera, anche se personalmente ho fatto pochissimo uso di tale libertà: solo per quel tanto che io stesso giudicavo lecito.
La pubblicità con cui spesso si pongono richieste di ordine morale mi fa una spiacevole impressione. Quel che ho visto in materia di conversioni etico-religiose non è stato molto invitante. [V'è qui una chiara allusione a Jung].
Vi è comunque un punto sul quale posso essere d'accordo con Lei. Quando mi domando perché mi sono sempre comportato onorevolmente, pronto a risparmiare gli altri e ad essere gentile ogniqualvolta era possibile, e perché non ho smesso di comportarmi così anche dopo aver constatato che in questo modo si nuoce a se stessi e si diventa un'incudine per i colpi degli altri, brutali e indegni di fiducia, rimango effettivamente perplesso. È certo che non è stato un fatto razionale. In gioventù non ho mai provato precise aspirazioni etiche né provo particolare soddisfazione nel concludere che sono migliore della maggior parte degli altri individui. Lei è forse la prima persona con la quale ho fatto questa ammissione. Si potrebbe quindi citare proprio il mio caso in favore della Sua tesi che un impulso verso l'ideale forma una parte essenziale della nostra costituzione. Se solo fosse dato osservare più spesso negli altri una costituzione così pregevole! Dentro di me ho fede che se si disponesse dei mezzi per studiare la sublimazione degli istinti in modo altrettanto esauriente della loro repressione si troverebbero spiegazioni psicologiche assolutamente naturali che renderebbero superflua la Sua ipotesi filantropica. Ma come ho detto non so nulla in proposito. Mi riesce assolutamente incomprensibile per quale ragione io (e tra parentesi anche i miei sei figli grandi) dobbiamo essere persone profondamente pulite..."

[La citazione è tratta da: Ernest Jones, Vita e opere di Sigmund Freud (riduzione a cura di L. Trilling e S. Marcus, trad. it. di Arnaldo Novelletto), Milano, Il Saggiatore, 2000]

Monday, June 12, 2006

Un vecchio disco... e un'estate di dieci anni fa

Me lo sto riascoltando adesso. Ecco uno di quei dischi veramente epocali per chi vi scrive: è davvero storico per me e ha tenuto banco per tutta un'estate e praticamente fino a tutta la successiva. Buon compleanno, Elvis! di Ligabue è datato 1995, sembra ieri e invece è già storia neanche tanto recente. Lo conoscemmo, io e i miei amici, nella primavera dell'anno successivo; io avevo 14 anni e la mia vita sociale non era cominciata da molto, ma con la compagnia dell'epoca c'era già un affiatamento speciale, rimasto ineguagliato negli anni nonostante la fine di quell'esperienza. Crescendo, molte cose cambiano, e tra queste anche il modo di vivere il rapporto di amicizia; all'epoca andava in una certa maniera, che sicuramente era più semplice, ma non per questo banalmente ingenua. Ma non mi soffermo su questo. Ricordo solo che l'aggregazione era per tutti noi molto importante e uno dei mezzi per ottenerla era la musica. Non posso sapere chi per primo scoprì questo Ligabue e lo fece conoscere, ma di fatto la presa fu immediata ed eravamo tutti entusiasti di un cantante che, finalmente, ci comunicava qualcosa, un messaggio preciso e partecipato, una descrizione di cos'era la vita individuale da una parte e collettiva dall'altra.
Era poi il periodo in cui da poco avevo cominciato a suonare la chitarra, e quale allenamento migliore che tirarsi giù i brani del disco per poi suonarli e farli cantare al gruppo riunito. E furono i primi assoli che trascrissi, assieme a quelli dei dischi di Vasco Rossi. Pomeriggi e serate brillantemente risolti in questa maniera, feste di compleanno dall'autunno 1996 in poi con musica dal vivo (!!!) fatta da me e altri amici, stereo portatili a pile coi primi lettori CD integrati, innumerevoli uscite in motorino, pomeridiane e serali, zaino in spalla con viveri, gli stereo sopradetti, qualche coperta per il picnic sull'erba o per stendersi a guardare le stelle.
Ligabue voleva dire qualcosa in questo contesto. Credo che tutti i miei lettori e lettrici abbiano avuto 14 - 15 - 16 anni e sappiano cosa succede in quel periodo della vita di una persona, ma posso esemplificare il mio assunto. Quando ti piace una ragazza, nella maniera semplice che può esserci quando si è ragazzi giovani, non chiedi meglio di poterle dedicare qualcosa del tenore di:
"O è il riflesso della luna o sei proprio bella, / se vuoi siediti. / Hai parcheggiato e camminato, non sai dove sei, / ma sei qui." (Seduto in riva al fosso... e magari in riva al fosso si era veramente, con una chitarra portata su fin lì, sacchetti di patatine e bibite gassate a fiumi... ma tu pensi solo a LEI e non sai come dirglielo... Do maggiore, Sol maggiore, Si bemolle maggiore, Fa maggiore...).
E le crisi adolescenziali ricorrenti non potevano chiedere miglior viatico di Il cielo è vuoto o il cielo è pieno: "Io non so se sono cotto, / certi giorni non mi basta ciò che vedo e sento e tocco, / però so che non so stare fermo". La vita di gruppo trovava in Certe notti, battutissimo singolo da radio, una rappresentazione ideale e quasi un obiettivo da raggiungere. L'ingenua ricerca di pseudo-eccessi adeguati alla nostra età era temperata dal monito di Un figlio di nome Elvis: "Brucia, brucia la candela, / brucia dai due lati, / brucia prima di una luce un po' più viva e di più".
In retrospettiva, trovo che avessimo ragione noi, e che, una volta vista la produzione successiva di Ligabue, QUEL disco è stato veramente il suo miglior lavoro, per originalità, espressività e contenuti. I brani dei dischi successivi, non me ne vogliano i suoi fan più appassionati, in confronto fanno sorridere, quando non sghignazzare. Le scelte coraggiosissime del '95, frutto di una riflessione approfondita, hanno perso in breve tempo tutta la loro carica e colui che è nato cantautore ha voluto trasformarsi per forza in rockstar da stadio, nel senso più deteriore della cosa.
Lo ammetto, sono un po' di parte nell'affermarlo; per questo può essere che la mia opinione non sia molto condivisibile. Ma musicalmente sono un po' radicale nel valutare le cose, anche se raramente lo faccio per partito preso puro e semplice. Il genere, del resto, non l'ho più seguito più di tanto, e perciò non sono più molto titolato a parlare estesamente di questo.
Rileggendo, peraltro, devo autocriticare la mia notevole malinconia in questo post; come direbbe Vasco Rossi, altro eroe di qualche anno fa, "non le vedi più quelle estati lì". Sto invecchiando... e di conseguenza sto diventando (o ritornando) sentimentale/sentimentalista. Bah... cose che capitano... non è mica il peggio, in fin dei conti.

Una foto curiosa in tutti i sensi

Ricevo e pubblico:

... che stato... :o :o :o

Saturday, June 10, 2006

La lanterna magica

Ritchie Blackmore e gentile signora sono al loro quinto disco dal '98, anno di fondazione del sodalizio artistico che ha dato vita al progetto Blackmore's Night. Tutta la storia del gruppo non è il caso che io la ripeta, se non per ricordare la scelta di forte rottura che all'epoca Blackmore aveva fatto rispetto a pressoché tutte le sue esperienze precedenti: chi ricordava la sua lead guitar nei Deep Purple o nei Rainbow era sicuramente rimasto alquanto sconcertato dalle atmosfere dell'opera prima del new deal blackmoreiano (... perdonate il barbarismo!), Shadow of the moon. Chitarre acustiche a tutto andare, strumenti antichi, temi ripresi da autori classici del '500 (Susato in testa) o dalla tradizione popolare rinascimentale, e soprattutto l'eterea voce della giovane compagna Candice Night (potrebbe essere sua figlia, credo... beato per lui, è anche una gran gnocca IMHO). Altri tre dischi belli, ma a onor del vero forse non pienamente all'altezza del debutto, con una Stratocaster che di tanto in tanto fa capolino per sonorità orchestrali o soli da brivido come solo Lui (!!!) sa fare; qualche brano veramente meritevolissimo, altri discreti. Il quinto lavoro, Village lanterne, lo dico a malincuore, sembra mostrare i limiti del progetto, che sta alquanto richiudendosi su se stesso a discapito dell'originalità e del rinnovamento interno. Forse è anche un fatto "fisiologico" dei complessi musicali, che non in molti casi riescono a tirare avanti con spunti di sempre crescente innovazione e maturazione. Comunque il disco, per chi conosce la produzione precedente, vivacchia ed entusiasma ben poco; per chi eventualmente non avesse ascoltato la discografia precedente, di sicuro è tutt'altro che un buon entry point.
Cominciamo dalle cose buone, che obiettivamente non mancano. E, mi verrebbe da dire, guarda caso... sono solitamente le tracce più "elettrificate" e ritmate, dove si sente pulsare l'anima fondamentalmente rock (per non dire HARD ROCK!) di Blackmore. I guess it doesn't matter anymore, pur non originalissima armonicamente, ha una melodia vocale di buon spessore e un testo interessante; l'intro lenta, che poi ritorna come interludio, svia un po' l'ascoltatore dallo sviluppo successivo, ma non è certo un difetto, ed è senz'altro più riuscita che All for one del precedente disco Ghost of a rose. Brava Candice nella non facile ornamentazione della linea di canto. La seconda traccia davvero di gran valore è la cover di St. Teresa di Joan Osborne, molto aggressiva sull'ostinato ritmo in terzine, con un solo centrale di ottimo gusto e tiro e una voce anche in questo caso abilissima a eseguire il tutto a una velocità non indifferente.
Tra i momenti acustici, splendida la prima traccia, 25 years, perfetta introduzione per un disco di questo genere: l'oscuro e visionario testo è reso con ottima aderenza musicale, le sonorità sono lievi e quasi mistiche, per un brano che si candida ad essere un classico. Anche Fairie queen è di buon valore, se non fosse che ricorda davvero troppo da vicino Catherine Howard's fate da Under a violet moon, e nel mezzo del ritornello c'è una progressione che ricorda perfino What a feeling!!! Meno male che al termine Blackmore ci regala uno dei suoi classici e trascinanti finali strumentali su un vivace tempo di saltarello.
Il disco potrebbe praticamente finire qui: altri momenti degni di nota in realtà non ce ne sono, tolto forse l'organum per quinte affidato a un lontano coro maschile in World of stone, rielaborazione di un motivo popolare tedesco. Se The messenger, Once in a garden e Windmills potrebbero essere tranquillamente espunte senza che ci si accorga di nulla, tracce come Olde mill inn DOVREBBERO essere saltate ad ogni ascolto: un fastidiosissimo valzer che nulla ha a che spartire con l'uso in passato fatto da Blackmore del ritmo di danza... penso alla splendida Be mine tonight del primo disco. La chicca è però un quantomeno curioso medley tra un rifacimento molto discutibile e del tutto inutile di Mond Tanz, sempre da Shadow of the moon, e nientemeno che il classico profondo viola Child in time! Kitsch, molto kitsch, pure troppo... se mi passate l'espressione non proprio finissima, non c'entra una sega.
In definitiva, che dire? Le doti strumentali e la sensibilità musicale di Ritchie Blackmore non sono minimamente in discussione: non per niente è diventato un classico, meritatamente. Candice Night migliora di disco in disco: se in principio la sua voce era a tutti gli effetti un respiro dotato di intonazione (fin dai tempi dei cori in Ariel su Stranger in us all dei redivivi Rainbow nel '95), è andata via via maturando e anche le sue capacità di variazione timbrica si sono decisamente ampliate. L'impegno profuso dà i suoi frutti, che sono una delle cose migliori di questa lanterna: finalmente una voce con un po' di profondità e un fraseggio sentito e versatile (le sue svisate blueseggianti hanno il loro fascino...!). Può migliorare ulteriormente, speriamo che prosegua sul cammino tracciato. Niente da eccepire neppure sulla produzione: strumenti acustici così ben registrati raramente capita di sentirne; le elettriche sono ottime come sempre, la sezione ritmica non esaltante ma più che decente, l'equilibrio generale del mix ben studiato, i suoni sintetici per nulla invasivi ma non per questo meno ricercati.
Il problema, a mio avviso, sta nel fatto che non si capisce la direzione che la coppia al comando vuole intraprendere. Con quattro dischi e mezzo la corrente arcaicizzante (o modernizzante l'arcaico, a seconda dei punti di vista!) secondo me può dirsi esaurientemente rappresentata e non è il caso di insistere oltre laddove manchino le idee. Più auspicabile sarebbe un ritorno alle sonorità intermedie e al metodo di composizione di matrice più esplicitamente rock, che ha prodotto in questi anni risultati, se non da far gridare al miracolo, sicuramente interessanti, degni di merito e di una certa originalità, specialmente in virtù della formula adottata.
Blackmore ha dimostrato, checché ne dicano i detrattori, di essere un po' l'unico della vecchia squadra dei Deep Purple a sapersi reinventare una carriera senza sentirsi in dovere di fare le cose per forza. Si può dire che l'abbia fatto in virtù (... o in vizio??? ;) ) del suo carattere scontroso e del suo temperamento autonomista e vagamente dittatoriale; comunque, l'ha fatto. Togliersi di torno non appena capito che si stava scivolando verso una formula da "cover band di se stessi" (chi legge e mi conosce sa di cosa sto parlando, se n'è discusso più volte) è stata una scelta coraggiosa e che gli ha attirato non poche critiche una volta che si è capito quali erano le sue intenzioni; ma ritengo che sia stato molto più realista lui.
Detto questo, si rende necessario un nuovo ripensamento della cosa, altrimenti c'è il netto rischio di riproporre dei cliché sempre più vuoti e non più funzionali al messaggio che si vuol comunicare; e sinceramente non è bello sentirsi in qualche modo "vincolati" dalla propria ammirazione a comprare qualsiasi cosa con su scritto "Blackmore" solo per il buon nome del vecchio guitar hero. Non c'è che da sperare che l'età (61 anni!) gli abbia portato ulteriore saggezza e un'ancor miglior capacità di autocritica!
Ecco Blackmore... lo stile è sempre quello! E ormai i baffetti da sfregio sono d'ordinanza...

Friday, June 09, 2006

Aspettando un passaggio

... e non si torna a casa,
si rimane così...
Magari un po' perplessi
su treni fuori orario,
scendendo scale mobili,
aspettando un passaggio
che non so se verrà,
che non so se verrà, ma non credo che venga.
Io non so se verrà / Io non credo che venga.

(CCCP, Brucia baby burn, dal disco Canzoni preghiere danze del II millennio sezione Europa, 1989)

Monday, June 05, 2006

Polygen: De Zan

Il Polygen è un curioso programmino comico-linguistico che, partendo da una grammatica predefinita, può creare frasi o interi documenti combinando casualmente gli elementi forniti. Gli effetti sono talora esilaranti, ma il fondamento teorico non è niente male e sarebbe interessante che gli autori approfondissero la cosa, fornendo la possibilità di un'interazione con il sistema (mentre, al momento, nulla fuorché il listato può contribuire alla composizione dell'output). Per i più tecnici, il manuale descrive dettagliatamente il modello di riferimento; la sintassi è molto simile alla Backus-Naur, adattata per lo scopo.
Questa era la parte seria. Veniamo quindi a quei mattacchioni dei collaboratori. Il front-end internet permette di visualizzare le grammatiche e generare documenti senza necessità di installare il software sul proprio computer. Tante grammatiche sono di considerevole rilievo umoristico: consigliatissime CALCIATORI, STUDIO APERTO, GHEZZI, MELISSA P., ANTANI (utilissimo per inventare supercàzzole sempre nuove... ma la produzione propria è sempre più auspicabile), BLOCCHI DEL TRAFFICO, FLAVIA VENTO (ricordiamo sempre il suo blog... teribbbbbbbbile! Gli ultimi post sono veramente delle chicche, e le Polygenate non vanno così lontano dalla realtà...), KAMASUTRA (la parodia più bella! Ma quando caXXo se le inventano 'ste robe???) e GENIO (categoria "Tecnologie").
Ma la migliore grammatica è dedicata a una leggenda delle telecronache televisive: signore e signori, proprio lui, l'inimitabile Adriano De Zan e i suoi trademarks che fino al '99 ci hanno tenuto compagnia sulle strade di Giro, Tour e classiche di ciclismo. Grande De Zan, sempre nei nostri cuori anche ora che non ci sei più. E, anche nella maniera tipicamente parodica, è bello ricordare la sua passione e la sua classe. La grammatica-tributo include una fracca e mezza di storiche perle del De Zan anni d'oro, quindi ancora prima che io cominciassi a interessarmi alla cosa (anche perché non ero ancora nato): il «campione elvetico Godi Schmutz», le liste di corridori (ivi compresi gli ipotetici ordini d'arrivo in tempo reale) con i loro nominativi tutti rigorosamente in asindeto, la saggezza proverbiale popolare («"Nemo profeta in patria", e quindi Urs Freuler NON poteva prevalere in questa tappa» e mille altre simili), la R sempre ipertrofica e, di conseguenza, l'immancabile "spalla" storica «Vittorrrrrrrrrrrio Adorrrrrrrrrrrrrni» e il conflittuale rapporto con il medesimo!
Ecco un esempio:

Riepiloghiamo la situazione quando mancano 84 chilometri al traguardo. Sui tornanti che portano al passo della Croce Povana il ritiro di Baffi in seguito a una caduta per la quale e' stato prontamente ospedalizzato. Dopo 12 chilometri nella discesa dopo il passo della Croce Povana una foratura di Vladimiro Panizza che perde contatto. La situazione: prosegue la fuga solitaria di Bincoletto che ormai ha raggiunto oltre 3 minuti di vantaggio.

Adorni, hai notato che Baffi e Boffo hanno entrambi i baffi, ma non baffi nel senso di Baffi, bensi' nel senso di MOUSTACHES (Adorni: er..). Beeene bene, tutti hanno sentito quello che hai detto e non puoi piu' rimagiartelo. Grazie, proseguiamo con la telecronaca.

Adorni, vorrei domand... MA ECCO UN IMPERIOSO SCATTO DI FUCHSSSSS. Adorni, lo avevi previsto. Bravo.

Ma il gruppo e' di nuovo compatto in vista del traguardo E-D E-C-C-O L-O S-P-R-I-N-T BOOOOIFAVA DAVANTI A BAFFFFFI SGOMITA SANTONI CAZZZZZOLATO GALDOS FRRROILER...VINCE A BRACCIA ALZATE IL CAMPIONE ELVETICO GODI SCHMUTZ!!! una volata imperiale come direbbero i francesi.
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Sunday, June 04, 2006

Words of Ec(h)o

Ho trovato sui sempre più affollati scaffali della biblioteca paterna (ah ah ah...) un librettino agile ma di un certo interesse: Del Giudice - Dionigi - Eco - Ravasi, Nel segno della parola, Milano, RCS, 2005 (nota per i più "venali": prezzo 8,20 Euro). Vi sono saggi dei quattro autori, che sono veramente di primissimo livello: forse il meno conosciuto è Daniele Del Giudice, romanziere; per quanto riguarda gli altri, abbiamo il biblista mons. Gianfranco Ravasi, l'eminente latinista Ivano Dionigi e il sempre ottimo Umberto Eco, che si presenta qui nella sua veste più "istituzionale" di semiologo, seppure con un approccio nettamente divulgativo. Il suo saggio mi è particolarmente piaciuto: ne vorrei riportare qualche passo interessante.

Superior stabat. Retorica del lupo e dell'agnello

Non so se valga la pena di dirvi quello che vi dirò perché ho la chiara coscienza di parlare a una massa di idioti con il cervello andato in acqua e basta guardarvi in faccia per capire che non capirete nulla.
Vi piace questo inizio? Si tratta di un caso di captatio malevolentiae, e cioè dell'uso di una figura retorica che non esiste e non può esistere, la quale mira ad inimicarsi l'uditorio e a mal disporlo verso il parlante. Tra parentesi, credevo di avere inventato io anni fa la captatio malevolentiae per definire il tipico atteggiamento di un amico, ma poi - controllando su Internet - ho visto che ormai esistono molti siti dove la captatio malevolentiae viene citata, e non so se si tratti di disseminazione della mia proposta o di poligenesi letteraria [...].
Badate che tutto sarebbe stato diverso se io avessi iniziato in questo modo: "Non so se valga la pena di dirvi quello che vi dirò perché ho la chiara coscienza di parlare a una massa di idioti con il cervello andato in acqua, ma parlo solo per rispetto verso quei due o tre di voi presenti in questa sala che non appartengono alla maggioranza degli imbecilli". Questo sarebbe un caso (sia pure estremo e pericoloso) di captatio benevolentiae, perché ciascuno di voi sarebbe automaticamente persuaso di essere uno di quei due o tre e, guardando con disprezzo tutti gli altri, mi seguireste con affettuosa complicita.
La captatio benevolentiae è un artificio retorico che consiste, come ormai avrete capito, nel conquistarsi subito la simpatia dell'interlocutore. Sono forme comuni di captatio l'esordio "è per me un onore parlare a un pubblico così qualificato" ed è captatio consueta (tanto da essersi ribaltata talora nel suo uso ironico) il "come lei m'insegna..." dove, nel ricordare a qualcuno qualcosa che non sa ho ha dimenticato, si premette che si ha quasi vergogna a ripeterlo perché evidentemente l'interlocutore è il primo a saperlo.
Perché in retorica si insegna la captatio benevolentiae? Come voi tutti m'insegnate, la retorica non è quella cosa talora ritenuta disdicevole, per cui noi usiamo paroloni inutili o ci profondiamo in appelli emotivi esagerati e non è neppure, come vuole una lamentevole vulgata, un'arte sofistica - o almeno, i Sofisti greci che la praticavano non erano quei mascalzoni che ci presenta spesso una cattiva manualistica. Peraltro il grande maestro di una buona arte retorica è stato proprio Aristotele, e Platone (malgrado un testo malizioso come il Gorgia) nei suoi dialoghi usava artifici retorici raffinatissimi, e li usava per polemizzare contro i Sofisti.
La retorica è una tecnica della persuasione, e di nuovo la persuasione non è una cosa cattiva, anche se si può persuadare qualcuno con arti riprovevoli a fare qualcosa contro il proprio interesse. Una tecnica della persuasione è stata elaborata e studiata perché su pochissime cose si può convincere l'uditore attraverso ragionamenti apodittici. Una volta stabilito che cosa sia un angolo, un lato, un'area, un triangolo, nessuno può mettere in dubbio la dimostrazione del teorema di Pitagora. Ma, per la maggior parte delle cose della vita quotidiana, si discute intorno a cose circa le quali si possono avere diverse opinioni. La retorica antica si distingueva in giudiziaria (e in tribunale è discutibile se un dato indizio sia probante o meno), deliberativa (che è quella dei parlamenti e delle assemblee, in cui si dibatte per esempio se sia giusto costruire la variante di valico, rifare l'ascensore del condominio, votare per Tizio piuttosto che per Caio) ed epidittica, e cioè in lode o in biasimo di qualcosa, e tutti siamo d'accordo che non esistono leggi matematiche per stabilire se sia stato più affascinante Gary Cooper piuttosto che Humphrey Bogart, se lavino più bianco l'Omo o il Dash, se Irene Pivetti appaia più femminile di Platinette.
Siccome per la maggior parte dei dibattiti di questo mondo si argomenta intorno a questioni che sono oggetto di dibattito, la tecnica retorica insegna a trovare le opinioni sulle quali concorda la maggior parte degli uditori, a elaborare dei ragionamenti che siano difficilmente contestabili, a usare il linguaggio più appropriato per convincere della bontà della propria proposta, e anche a suscitare nell'uditorio le emozioni appropriate al trionfo della nostra argomentazione [...].
Ma a questo punto è chiaro perché la captatio malevolentiae non può essere un artificio retorico. La retorica tende ad ottenere consenso, e quindi non può apprezzare esordi che scatenino immediatamente il dissenso. Pertanto è tecnica che non può che fiorire in società libere e democratiche, compresa quella democrazia certamente imperfetta che era quella della Atene antica. Se io posso imporre qualcosa con la forza, non ho bisogno di richiedere il consenso: rapinatori, stupratori, saccheggiatori di città, kapò di Auschwitz non hanno mai avuto bisogno di usare tecniche retoriche.
Sarebbe allora facile stabilire una linea di confine: ci sono culture e paesi in cui il potere si regge sul consenso, e in essi si usano tecniche di persuasione, e ci sono paesi dispotici dove vale solo la legge della forza e della prevaricazione, e in cui non è necessario persuadere nessuno. Ma le cose non sono così semplici, ed ecco perché [...] parleremo di retorica della prevaricazione. Se, come dice il dizionario, prevaricare significa abusare del proprio potere per trarne vantaggi contro l'interesse della vittima, agire contrariamente all'onestà trasgredendo i limiti del lecito, sovente chi prevarica, sapendo di prevaricare, vuole in qualche modo legittimare il proprio gesto e persino - come avviene nei regimi dittatoriali - ottenere consenso da parte di chi soffre la prevaricazione, o trovare qualcuno che sia disposto a giustificarla. Pertanto si può prevaricare e usare argomenti retorici per giustificare il proprio abuso di potere.
Uno degli esempi classici di pseudo-retorica della prevaricazione ci è dato dalla favola del lupo e dell'agnello di Fedro:

Il lupo e l'agnello, assetati, / erano giunti al medesimo rivo. Più in alto stava il lupo; / ben più in basso, l'agnello. Quando, spinto da voracità sfrenata, / quel brigante cercò un pretesto per litigare. / "Perchè", attaccò, "mi hai intorbitato l'acqua che bevevo?" / A sua volta l'agnello tutto intimorito: / "Ma, scusami, lupo, come posso fare ciò di cui ti lagni? / È da te che scende l'acqua che io sorseggio".

Come si vede, l'agnello non manca di astuzia retorica e, di fronte a un'argomentazione debole del lupo, sa come confutarla, e proprio in base all'opinione compartecipata dalle persone di buon senso per cui l'acqua trascina detriti e impurità da monte a valle e non da valle a monte. Di fronte alla confutazione dell'agnello, il lupo ricorre ad altro argomento:

Allora quello, smentito dall'evidenza, incalza: / "Sei mesi or sono parlasti male di me". / E l'agnello replicò: "Ma io non ero neppure nato!".

Altra bella mossa da parte dell'agnello, a cui il lupo risponde cambiando ancora giustificazione:

E l'altro: "Tuo padre, per Ercole, parlò male di me". / E così dicendo lo afferra e, violando ogni diritto, lo sbrana. / Questa favola è dedicata a chi / inventa pretesti per opprimere gli innocenti.

La favola ci dice due cose. Che chi prevarica cerca anzitutto di legittimarsi. Se la legittimazione viene confutata, oppone alla retorica il non argomento della forza. Naturalmente la favola di Fedro ci offre una caricatura del prevaricatore in quanto retore, perché il povero lupo usa solo argomenti deboli, ma al tempo stesso ci offre un'immagine forte del prevaricatore forte.
Badate che la favola di Fedro non racconta qualcosa d'irreale. [...]
Abbiamo visto che il lupo usa argomenti speciosi, ma non è che l'agnello dia prova, nel confutarli, di grande sottigliezza. La falsità degli argomenti del lupo sta sotto gli occhi di tutti. Talora però gli argomenti sono più sottili perché sembrano prendere come punto di partenza un'opinione compartecipata dai più, quelli che la retorica greca chiamava un éndoxon, e su quelli lavora, nascondendo la tecnica della petitio principii, in base alla quale si usa come argomento probante la tesi che si doveva dimostrare, oppure si confuta un argomento usando come prova ciò che l'argomento voleva confutare.
[...]
[...] torniamo al nostro lupo. Esso, per divorare l'agnello, cerca un casus belli, cerca cioè di convincere l'agnello, o gli astanti, e forse persino se stesso, che egli mangia l'agnello perché gli ha fatto un torto. Questa è la seconda forma di una retorica della prevaricazione. La storia dei casus belli nel corso della Storia mette, infatti, in scena dei lupi un poco più avveduti. Tipico è il casus belli che ha dato origine alla Prima guerra mondiale.
Nell'Europa del 1914 esistevano tutti i presupposti per una guerra; anzitutto una forte concorrenza economica fra le grandi potenze: il progresso dell'impero tedesco sui grandi mercati inquietava la Gran Bretagna, la Francia vedeva con preoccupazione la penetrazione tedesca nelle colonie africane, la Germania soffriva di un complesso di accerchiamento, ritenendosi ingiustamente soffocata nelle sue ambizioni internazionali, la Russia si eleggeva a protettrice dei paesi balcanici e si confrontava con l'impero austro-ungarico. Di qui la corsa agli armamenti, i moti nazionalistici e interventisti nei singoli paesi. Ciascun paese aveva interesse a fare una guerra ma nessuna di queste premesse la giustificava. Siccome chiunque l'avesse dichiarata sarebbe apparso come inteso a difendere interessi nazionali e a prevalere sugli interessi delle altre nazioni, ci voleva un pretesto. Ed ecco che, a Sarajevo, il 28 giugno 1914, uno studente bosniaco uccide in un attentato l'arciduca ereditario d'Austria-Ungheria Francesco Ferdinando e la consorte. È ovvio che il gesto di un fanatico non coinvolge un intero paese, ma l'Austria coglie la palla al balzo. D'accordo con la Germania, attribuisce al governo serbo la responsabilità dell'eccidio, e indirizza a Belgrado il 23 luglio un duro ultimatum alla Serbia, ritenuta responsabile di un piano antiaustriaco. La Russia assicura subito il proprio sostegno alla Serbia, la quale risponde all'ultimatum in modo abbastanza conciliante ma bandisce al tempo stesso la mobilitazione generale. A questo punto l'Austria dichiara guerra alla Serbia, senza attendere una proposta di mediazione presentata dall'Inghilterra. In breve tempo tutti gli stati europei entrano in guerra. Per fortuna c'è stata la Seconda guerra mondiale, coi suoi cinquanta milioni di morti, altrimenti la Prima avrebbe avuto il primato tra tutte le tragiche follie della Storia.
[...]
Uno dei primi argomenti che si usano per scatenare una guerra o dare inizio a una persecuzione è l'idea che si debba reagire a un complotto ordito contro di noi, il nostro gruppo, il nostro paese. Il caso dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion, il libello che è servito di giustificazione allo sterminio degli ebrei, è un tipico caso di teoria del complotto. [...]
In genere le dittature, per mantenere il consenso popolare intorno alle loro decisioni, denunciano l'esistenza di un paese, un gruppo, una razza, una società segreta che cospirerebbe contro l'integrità del popolo dominato dal dittatore. In genere ogni forma di populismo, anche contemporaneo, cerca di ottenere il consenso parlando di una minaccia che viene dall'esterno, o da gruppi interni.
[...]
Mussolini e Hitler non sono stati gli ultimi a riprendere la teoria del complotto. So che tutti in questo momento state pensando a Berlusconi, che della teoria rimane però un pallido ripetitore. Ben più preoccupante è la ripresa dei Protocolli e del complotto giudaico per giustificare il terrorismo arabo. Dopo decenni e decenni che i Protocolli sono stati dimostrati un falso (costruito gradatamente nell'Ottocento da gesuiti legisttimisti, polizie segrete francese e russa), basta che visitiate i siti Internet in cui essi vengono riproposti e controlliate la diffusione anche ufficiale che hanno nel mondo arabo.
[...]
Ritorniamo all'Austria e a Mussolini. In quei casi il casus belli esisteva, sia pure magnificato ad arte. Ci sono casi in cui viene creato ex novo. Io non voglio partecipare - per rispetto delle diverse opinioni dei miei ascoltatori - alla discussione in corso sul fatto se Saddam avesse davvero le armi di distruzione di massa che hanno giustificato l'attacco all'Iraq. Mi rifaccio piuttosto ad alcuni testi di quei gruppi di pressione americani detti "neoconservatori", i quali sostengono, non senza ragioni, che gli Stati Uniti, essendo il paese democrativo più potente del mondo, hanno non solo il diritto ma anche il dovere di intervenire per garantire quella che comunemente viene detta la pax Americana.
Ora nei vari documenti elaborati dai neoconservatori si era da tempo fatta strada l'idea che gli Stati Uniti avevano dato prova di debolezza non portando a termine, ai tempi della prima guerra del Golfo, l'occupazione di tutto l'Iraq e la deposizione di Saddam e, specialmente dopo la tragedia dell'undici settembre, si sosteneva che l'unico modo per tenere a freno il fondamentalismo arabo fosse dare una prova di forza dimostrando che la più grande potenza del mondo era in grado di distruggere i suoi nemici. Pertanto si rendevano indispensabili l'occupazione dell'Iraq e la deposizione di Saddam, non solo per difendere gli interessi petroliferi americani in quella zona, ma per dare un esempio di forza e di temibilità.
Non intendo discutere questa tesi, che ha anche delle ragioni di Realpolitik. Ma ecco la lettera inviata al presidente Clinton il 26 gennaio 1998 dai massimi esponenti del "Project for the New American Century", punta di diamante dei neo cons, e firmato tra gli altri da Francis Fukuyama, Robert Kagan e Donald Rumsfeld:

Non possiamo più contare sui nostri alleati per continuare a far rispettare le sanzioini o per punire Saddam quando blocca o evade le ispezioni delle Nazioni Unite. Pertanto la nostra capacità di assicurare che Saddam Hussein non stia producendo armi di distruzione di massa è notevolmente diminuita. Anche se dovessimo ricominciare le ispezioni [...] l'esperienza ha dimostrato che è difficile se non impossibile tenere sotto controllo la produzione irachena di armi chimiche e batteriologiche. Poiché gli ispettori non sono stati in grado di accedere a molti impianti iracheni per un lungo periodo di tempo, è ancora più improbabile che riusciranno a scoprire tutti i segreti di Saddam [...]. L'unica strategia accettabile è quella di eliminare la possibilità che l'Iraq diventi capace di usare o minacciare. Nel breve periodo questo richiede la disponibilità a intraprendere una campagna militare [...]. Nel lungo periodo significa destituire Saddam Hussein e il suo regime [...]. Crediamo che gli Stati Uniti siano autorizzati, all'interno delle esistenti risoluzioni dell'Onu, a compiere i passi necessari, anche in campo militare, per proteggere i nostri interessi vitali nel Golfo.

Il testo mi pare inequivocabile: per proteggere i nostri interessi nel Golfo dobbiamo intervenire; per intervenire bisognerebbe poter provare che Saddam ha armi di distruzione di massa; questo non potrà mai essere provato con sicurezza, quindi interveniamo in ogni modo. La lettera non dice che le prove debbono essere inventate, perché i firmatari sono uomini d'onore (argomentazione fallace secondo i teorici Van Eemeren e Grootendorst, perché elude la norma dell'obbligo di giustificazione mediante il cosiddetto argumentum ad verecundiam, e cioè sottrarsi a quest'obbligo mediante garanzia personale della validità della tesi, ndr). Come si vede questa lettera, ricevuta da Clinton nel 1998, non ha avuto nessuna influenza diretta sulla politica americana. Ma alcuni degli stessi firmatari scrivevano il 20 settembre 2001 al presidente Bush, e quando ormai uno dei firmatari della prima lettera era diventato ministro della difesa:

È possibile che il governo iracheno abbia fornito qualche forma di assistenza ai recenti attacchi contro gli Stati Uniti. Ma anche se non ci fossero prove che leghino direttamente l'Iraq all'attacco, qualunque strategia mirata a sradicare il terrorismo e i suoi sostenitori deve includere un impegno determinato a destituire Saddam Hussein.

Due anni dopo, il duplice pretesto delle armi e dell'assistenza al fondamentalismo musulmano è stato usato, con la chiara consapevolezza che, anche se le armi c'erano, la loro esistenza non era provabile, e che il regime dittatoriale di Saddam era laico e non fondamentalista. Ancora una volta, ripeto, non sono qui a giudicare la saggezza politica di questa guerra, ma ad analizzare forme di legittimazione di un atto di forza.